Nell’ultimo decennio c’è stato un gran "ritorno agli anni ‘80", sia al cinema che nel mondo delle serie tv (se ne parlava proprio a proposito della serie nostalgica per eccellenza, Stranger Things). Ma con tutta questa foga di vintage ci scordiamo di una cosa molto importante: gli anni ’90. Spesso l’ultimo decennio del XX secolo viene bistrattato, confinato ai margini e giudicato solo come un fratello minore e kitsch dei "gloriosi ‘80". Di sicuro ci saranno dei buoni motivi per cui si è guadagnato questa nomea, ma è importante non scordarsi quando gli anni ’90 siano stati una chiave di volta fondamentale per i cambiamenti che sono avvenuti sia sul grande che sul piccolo schermo. In TV è stato proprio in questo decennio che i telefilm hanno iniziato la propria evoluzione, trasformandosi in un fenomeno di massa grazie a I segreti di Twin Peaks, X-Files ed E.R. i quali getteranno le basi per il concetto di “serializzazione” che esploderà definitivamente con Lost a inizio 2000. Sul grande schermo invece il cambiamento è ancor più grande e radicale: i Nineties hanno assistito alla nascita e allo sviluppo della tecnologia digitale, che all’interno della storia del cinema ha avuto una risonanza pari all’avvento del sonoro o della pellicola a colori. Un’autentica rivoluzione che ha donato la più totale libertà creativa a una generazione di filmakers sino a quel momento "artigiani"; specialmente nella prima metà del decennio, quando ancora si stavano esplorando e sperimentando le sue potenzialità. Per questo motivo essere un adolescente negli anni ’90 è stato bellissimo! Una generazione cresciuta con spettacolari film analogici come le trilogie di Star Wars, Indiana Jones o Ritorno al Futuro, che di colpo vedono quelle storie fatte di epicità e sentimenti arricchirsi di una componente visiva che sino a quel momento era raggiungibile solo nei sogni. Quella generazione è entrata nel buio di una sala e ha potuto vedere per prima i dinosauri muoversi davanti ai loro occhi, ritrovandosi con la mascella a penzoloni e la bocca arida, senza aver la possibilità di esclamare «Ma si vede che è di gomma!». Perché anche a 24 anni di distanza i dinosauri di Jurassic Park fanno impallidire certi effetti speciali moderni, e furono la prova tangibile che era possibile portare sullo schermo pressoché qualsiasi cosa. Ed è proprio con gli occhi ancora colmi di tale mirabilia che i ragazzi andarono a vedere quello che sarebbe diventato un altro classico: Jumanji. Tratto dall’omonimo libro per ragazzi scritto da Chris Van Allsburg, è la storia di un gioco da tavolo maledetto, in grado di far materializzare nel salotto di casa animali, cacciatori, piante carnivore e altri pericoli provenienti da una giungla immaginaria. « Ogni sconvolgente conseguenza del gioco scomparirà solo quando un giocatore raggiunto Jumanji gridato forte il nome avrà» recitano le avvertenze agli intrepidi che decidono di cominciare una partita. Jumanji è a tutti gli effetti una delle ultime avventure per ragazzi arrivate sullo schermo; un film degli anni ’80 fuori tempo massimo. Una sorta di epitaffio se vogliamo. Era il 1996 e nel giro di pochi anni il mare della CGI si sarebbe fatto sempre più impetuoso, facendo perdere la rotta a registi e sceneggiatori che predilessero la spettacolarità in favore della storia e dei sentimenti, salvo poi ritornare sui propri passi con questo “revival anni ‘80”. Con Jumanji, Joe Johnston creò un film che è un punto d’incontro perfetto tra la vecchia scuola e la tecnologia nascente, facendo in modo che fossero gli effetti a essere funzionali alla narrazione e non viceversa. Il cuore della vicenda infatti restano i ragazzi. Due coppie di ragazzi per la precisione, e non fatevi ingannare dall’età anagrafica degli attori sullo schermo! Da una parte abbiamo Peter e Judy, orfani che vivono con la zia. Durante lo svolgersi del film loro sono bambini e si comportano come tali; il loro percorso narrativo li porterà a superare le proprie insicurezze, facendoli maturare sino a trasformarli in adolescenti consapevoli. Dall’altro lato abbiamo Alan Parrish e la sua amica Sarah Whittle, che nel prologo del film iniziano la partita che si concluderà solo 26 anni più tardi. Nello svolgersi della storia saranno interpretati rispettivamente da Robin Williams e Bonnie Hunt, che al tempo delle riprese avevano circa 40 anni, ma che nella psicologia non sono altro che due ragazzi intrappolati in corpi di adulti. Jumanji è il classico racconto di formazione, in cui l’evoluzione dei protagonisti avviene attraverso lo svolgersi del gioco: il riuscire a superare uno dei mostri che fuoriescono nella realtà vuol dire fare un passo verso la propria maturità. Peter, nascosto dietro il suo muro di mutismo; Judy dietro quello delle proprie bugie; Sarah confinata a uno stato d’insicurezza cronica causato da 20 anni di psicoanalisi. Il più emblematico è il percorso di Robin Williams, all’inizio presentato come un bambino timido confinato nell’ombra del padre (magnate di un’azienda di scarpe e figura rispettata della società). Non è un caso che il cacciatore Van Pelt, acerrimo nemico che per 26 anni ha combattuto nella giungla, ha le stesse fattezze del padre di Alan in uno splendido gioco di specchi e metafore. Vincere il gioco, sconfiggere il cacciatore, per lui equivale quindi a uscire dall’ombra del genitore per diventare finalmente adulto. Sotto quest’ottica l’abbraccio finale tra Alan e suo padre, una volta conclusa la partita, con il tempo che si è riavvolto di 26 anni, assume una nuova e più importante connotazione; un gesto quasi liberatorio. Tutto ciò, da adolescente negli anni ’90, non appariva così lampante, ma riguardando Jumanji con una maturità diversa si può affermare che esso sia realmente un piccolo gioiello con più chiavi di lettura, decifrabili a seconda dell’età dello spettatore. E in fondo il cinema è questo: storie immortali, in grado di parlarci a ogni visione, svelandoci metafore che si evolvono mano a mano che prendiamo coscienza della nostra vita.