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Dolor y Gloria

27/06/2019 11:00

Marcello Perucca

Recensione Film,

Dolor y Gloria

Almodóvar si svela e si mette a nudo di fronte al proprio pubblico

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Non è un’autobiografia nel senso più stretto del termine. Eppure Dolor y Gloria, ultima fatica di Pedro Almodóvar, presentato alla 72ª edizione del Festival del Cinema di Cannes, è sicuramente uno fra i film più autobiografici realizzati dal regista spagnolo. Film sofferto, emozionante per il tema trattato e per la delicatezza con cui Almodóvar raffigura il protagonista: uno splendido Antonio Banderas in una fra le migliori interpretazioni della sua carriera. Salvador Mallo (Banderas) è un famoso regista cinematografico in crisi, sia creativa che fisica. Soffre di problemi vari, molti di natura psicosomatica, che gli impediscono di lavorare, gettandolo in uno stato di depressione dal quale stenta a uscire. Salvador ormai vive di ricordi, soprattutto di lui bambino quando, con sua madre - che nel film ha il volto di Penelope Cruz – si trasferì dalla città al paese per ricongiungersi con il padre minatore, andando a vivere in una casa ricavata da una grotta. I ricordi di infanzia sono l’unica àncora di salvezza che gli permette di continuare a vivere, sino al giorno in cui accetta di presenziare alla proiezione della copia restaurata di Sabor, il suo film capolavoro. Per questo si mette in contatto con l’attore protagonista Alberto Crespo con il quale aveva, da tempo, interrotto qualsiasi contatto e che lo inizierà all’eroina permettendo a Salvador di lenire in qualche modo i propri mali. Questo riavvicinamento permetterà a Salvador di risollevarsi un po’ dalla condizione di profonda prostrazione mentale, consentendogli di portare a termine una pièce teatrale che donerà ad Alberto affinché questi la possa portare sul palcoscenico. Si tratta di un monologo con cui Salvador si racconta, ripensando a Federico (Marcelo nel testo), suo grande amore di tanti anni prima e lasciato a causa della sua dipendenza dall’eroina.


Con Dolor y Gloria, Almodóvar si svela e si mette a nudo di fronte al proprio pubblico. E se, come dichiarato dallo stesso regista, il tasso di autobiografia che c’è nel film è pari a circa il 40% (ad esempio Almodóvar non ha mai fatto uso di droghe), per quello che riguarda un livello più profondo lo si può considerare totalmente autobiografico. Realizzato su soggetto e sceneggiatura dello stesso Almodóvar, il film è un'operazione metacinematografica, costellata da numerosi flash-back in cui Salvador rammenta la sua vita da bambino; da quando arrivò al paese insieme alla madre, al tempo in cui venne mandato a studiare contro la sua volontà in una scuola di preti. È un film sui ricordi: quelli dell’infanzia, dei cinema in piazza con la meraviglia dello schermo bianco accanto al quale si andava a fare pipì. «I cinema dell’infanzia sapevano sempre di pipì e di gelsomino» dirà Banderas/Almodóvar ad un certo punto. I ricordi dei lenzuoli, di un bianco immacolato, stesi ad asciugare al sole sugli arbusti accanto al fiume, mentre le donne intonavano melodiose canzoni, in una delle sequenze esteticamente più mozzafiato del film grazie alla fotografia di José Luiz Alcaine, che incanta per le sue scelte cromatiche adottate nel corso dell’intera pellicola. Ma Dolor y Gloria è anche un’opera sull’oggi, sul male di vivere del nostro quotidiano, sulla difficoltà di essere sempre se stessi nonostante le ferite inferte dalla vita, come quelle derivanti dagli amori perduti per sempre o dal rapporto con la madre che vediamo, ormai alla fine dei suoi giorni, rinfacciare con candore a uno stupito Salvador di non essere stato un buon figlio. Forse il percorso di rievocazione iniziato con Tutto su mia madre e portato avanti con Volver e La mala educacion, termina qui. Con un film sofferto, permeato di un dolore forse più contenuto ma non per questo meno intenso, esplicitato dallo sguardo triste e dai movimenti sofferti di Salvador. Film catartico di un grande regista al quale quest’anno il Festival del Cinema di Venezia (che con lui è sempre stato poco generoso) renderà omaggio con un meritato, quanto necessario, Leone d’oro alla carriera.


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