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After this our exile

03/11/2010 12:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

After this our exile

Diciassette anni...

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Diciassette anni. Cosi tanto ha dovuto aspettare il pubblico per godere di un nuovo film di Patrick Tam, maestro indiscusso del cinema di Hong Kong, conosciuto anche per esser stato montatore di eccellenti colleghi come Johnnie To e Wong Kar-Wai. After this our exile è il successore del cult My heart is that eternal rose, pellicola cardine della new wave hongkonghese di fine anni '80. Dall'esordio col seminale The sword il regista ha sempre amato variare tra i generi, passando dalle opere in costume alla commedia. In questo suo ritorno ci troviamo dinanzi a un dramma di grande intensità, che in due ore e mezza riesce a toccare più volte le corde del cuore.


Il piccolo Boy (Gouw Yan Iskandar) sta per recarsi come tutte le mattine a scuola, ma nota in sua madre, la bella Lin (Charlie Yeung) un comportamento insolito. Sceglie così di tornare velocemente a casa e scopre che la madre stava organizzando una partenza in fretta e furia, per allontanarsi dal suo compagno, e padre di Boy, Chow Cheung Shing (Aarok Kwok). L'uomo infatti, cuoco di un piccolo ristorante, che sperpera tutti i suoi averi nelle scommesse, non ha mai reso felice Lin, maltrattandola spesso in preda a scatti d'ira. In un primo tempo la donna desiste dal suo intento, anche per via dell'amore verso Boy, ma dopo qualche giorno decide di fuggire rendendosi irreperibile. Chow, rimasto solo con il piccolo da mantenere, è sommerso dai debiti, e deve parecchi soldi a dei boss di quartiere. Decide così di fuggire insieme al figlio in un paese vicino, continuando a barcamenarsi tra affarucci più o meno legali in cui coinvolge anche lo stesso Boy.


After this our exile è una lenta e inesorabile discesa all'inferno, psicologico e sociale, in cui incappano i due protagonisti di questa vicenda familiare dalle tinte cupe. Il rapporto tra padre e figlio è costellato da diverse sfaccettature, e il profondo legame che li lega non impedisce a Chow di trattare Boy nei modi più crudeli possibili, senza rendersene conto, impegnato a comprendere qualcosa della sua vita che sta lentamente distruggendosi in piccoli pezzi. L'abbandono della compagna di una vita, anch'essa persa per via dei suoi comportamenti egoistici, invece di spronare un cambiamento nell'uomo, lo spinge a insistere sui punti dolenti della sua vecchia vita, dove il pensiero di una normale esistenza è un lontano miraggio. Il film è perciò crudo, e toccante, forse ancor più perché Chow è tutto fuorché un personaggio odioso; anzi in più di un'occasione sembra dimostrare di amare realmente con tutto se stesso il figlio, salvo poi smentirsi poco dopo, in una sorta di identità confusa e schizzata, che troverà forse le risposte nel dolente finale. Grande nota di merito alle interpretazioni dei due protagonisti: Aaron Kwok, volto ben conosciuto dagli appassionati del cinema d'Oriente (Murderer, The Stormriders), è strepitoso in un ruolo per nulla semplice, riuscendo a regolare con dovizia i suoi eccessi drammatici; l'esordiente Gouw Yan Iskandar, a discapito della tenera età, dimostra già un talento "da giganti", e regge benissimo la sfida con Kwok. Due volti, due anime che catturano e avvinghiano lo spettatore, al servizio di una regia esemplare, che si concentra in egual misura tra la potenza delle emozioni e la bellezza delle immagini, con inquadrature stilisticamente perfette, in un contesto che coniuga apparenza e sostanza. Merito anche di un montaggio d'eccezione, capace di regalarci scene grandiose come quelle di sesso, in cui i ricordi del passato si fondono con la sensualità del presente, in un misto di sofferenza e sex appeal poche volte così ispirato. Tra tenerezza e brutalità, After this our exile è una visone che dilania e ammalia, non facendo pesare per nulla la sua lunga durata. Speriamo questa volta di non dover attendere di nuovo diciassette anni per rivedere Tam dietro la macchina da presa.


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