Basta dare un'occhiata alla filmografia del regista canadese, per rendersi conto che il suo Blade Runner 2049 può dare soddisfazioni
Ufficialmente la Alcon Entertainment annuncia la messa in cantiere di un sequel di Blade Runner nel febbraio del 2015, per la regia di Denis Villeneuve, subentrato a Ridley Scott. Perchè lui? Andando a dare un’occhiata alla filmografia del regista canadese possiamo osare dire che, probabilmente, a oggi, non esisteva scelta migliore per la produzione potesse fare. E, in effetti, Blade Runner 2049 sembra aver dimostrato a tutti, scettici compresi, come si realizza un sequel, 35 anni dopo un capolavoro.
Il primo cinema di Denis Villeneuve
Senza dubbio uno dei registi più interessanti degli ultimi anni, Villeneuve si cimenta in un tipo di cinema molto intimo, a tratti minimalista, ma non per questo meno d’impatto o poco appariscente. Anzi. Al contrario di Nicolas Winding Refn non nasconde esili storie dietro un’estetica maniacale e ipnotica. Diversamente da Christopher Nolan non si rifugia in tecnicismi ammalianti, che appannano i molteplici difetti delle sue pellicole.
Denis Villeneuve riesce a fondere in una sinergia perfetta una solida narrazione, caratterizzata da un impeccabile approfondimento psicologico dei personaggi e a uno stile di regia calibratissimo, che non lascia nulla al caso.
Esordisce nel 1998 con Un 32 aout sur terre, storia d’amore impossibile che si sviluppa in un’atmosfera onirica e surreale, unendo suggestioni che spaziano dalla Nouvelle Vague al cinema di David Lynch, fino a Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni.
Sin dal debutto, è abbastanza evidente una delle tematiche ricorrenti nella sua filmografia: l’esistenza umana vista come un concatenarsi di eventi, mossi unicamente da casualità e caos. Un tema che ritorna prepotente già nel suo secondo film, Maelstrom (vincitore del premio Fipresci al Festival di Berlino): questo termine norvegese, che significa letteralmente "corrente/gorgo”, simboleggia il ribollio contrastante dei sentimenti della protagonista.
Ancor più incisivo è il film successivo, che racconta la strage avvenuta nel dicembre 1989 in un liceo di Montréal, dove uno studente uccise a colpi di fucile 14 ragazze prima di togliersi la vita. Polytechnique – girato in un glaciale bianco e nero e spogliato il più possibile da dialoghi superflui – è una distaccata cronistoria del massacro dove non vengono indagati i motivi, ma messe in evidenza le azioni e i sentimenti dei suoi protagonisti.
Ma la svolta della sua carriera avviene nel 2010 con La donna che canta (candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero) subito osannato dalla critica. Un dramma familiare che si dipana su due linee narrative – la prima ambientata nel presente e la seconda, nel passato in Libano, durante la guerra civile - che traggono linfa l’una dall’altra, intrecciandosi sino a tessere uno dei drammi più dilanianti visti sullo schermo negli ultimi anni.
Denis Villeneuve: dal Québec a Hollywood
Nel 2013 Villeneuve approda a Hollywood, subentrando a Bryan Singer alla regia di Prisoners, dramma familiare con Hugh Jackman e Jake Gyllehaal, in cui la figlia minore di una coppia medio borghese sparisce nel nulla il giorno del ringraziamento. Il regista abbandona il Canada ma non i temi a lui cari: i prigionieri del titolo sono molteplici, sia fisici che metaforici, a indicare una condizione umana di costrizione dettata (anche) da morale ed etica sociale. Lo stesso anno, sempre con Gyllehaal protagonista, dirige Enemy (la summa massima del suo cinema) adattamento del romanzo L’uomo duplicato di José Saramago.
Un viaggio nel subconscio del protagonista; un rebus metaforico tanto stratificato da richiedere più di una visione per poter essere decifrato a dovere.
A seguire dirige Sicario che, a oggi, è forse il suo film più conformista: la storia di un agente dell’FBI, parte di una squadra speciale che opera al confine tra USA e Messico contrastando i traffici di droga. La grandezza del regista qui risiede nei dettagli, sia dal punto di vista tecnico (candidatura agli Oscar per fotografia, colonna sonora e montaggio sonoro) ma soprattutto nella direzione degli attori. Attraverso semplici gesti, a volte solamente suggeriti, Denis Villeneuve riesce a donare a ogni personaggio una profondità psicologica disarmante.
Da Arrival a Blade Runner 2049
Il passo definitivo Villeneuve lo ha compiuto lo scorso anno con Arrival (8 candidature tra cui Miglior Film e regia) dove concilia un grosso budget, una notevole mole di CGI e una storia intimista in cui ancora una volta la protagonista è una donna.
Villeneuve dimostra di saper dirigere un prodotto fantascienza in senso stretto, dove alla base c’è un’idea solida che rende il film un affascinante gioco di specchi a duplice interpretazione.
Forse è questa la conferma che serviva per convincere tutti che fosse proprio lui il regista più adatto a cui affidare un film delicato come Blade Runner 2049. Le premesse per non avere l’ennesimo reboot mascherato da sequel paiono esserci tutte. Visto il curriculum, si può affermare che Denis Villeneuve alla regia sia una garanzia forse anche più di Ridley Scott, che quando diresse l’originale aveva alle spalle solo un film in costume (I duellanti) e un horror ambientato su un’astronave (Alien).
Inoltre le parole inviate dallo stesso regista nel comunicato stampa («I would ask that you preserve the experience for the audience of seeing the film the way you will see it... without knowing any details about the plot of the movie») fanno presagire un film denso, degno del primo capitolo; suonano come una supplica che invita a non rovinare la sorpresa agli spettatori.
Una richiesta disarmante vista l’era di terrore dello spoiler in cui viviamo. Se appena un mese fa quasi nessuna recensione preservava il fascino del “montaggio temporale” utilizzato da Christopher Nolan in Dunkirk, speriamo che questa volta le sorprese riescano ad arrivare in sala.
Intanto, aspettiamo Blade Runner 2049 confidando che l'eredità di Ridley Scott sia in buone mani.