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Arrival

01/09/2016 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film, Denis Villeneuve, Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker,

Arrival

Prosegue l’indagine del regista canadese dei dilemmi e dei drammi umani

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Quando misteriose astronavi aliene sbarcano sulla Terra, la linguista Louise Banks (Amy Adams) viene arruolata dal governo degli Stati Uniti per tentare di scoprirne le origini e i loro scopi sul pianeta.


Uno dei film più attesi di questa 73esima edizione di Venezia è sicuramente Arrival, ultima fatica di Denis Villeneuve ispirata a Storia della tua vita, un racconto a opera di Eric Heisserer e tratto dalla raccolta “Storie della tua vita” di Ted Chiang. Prosegue quindi l’indagine, da parte del regista canadese, dei dilemmi morali e dei drammi umani che subentrano insieme con l’elemento “altro”, sconosciuto: stavolta, a mozzare il già precario equilibrio della protagonista (vessata da fulminei flashback da un passato che irrompe continuamente nel quotidiano) è l’apparizione di indecifrabili oggetti extraterrestri con cui si trova a dover comunicare per capirne le intenzioni. Lo sguardo di Villeneuve è, soprattutto nella prima parte dell’opera, più visionario e ispirato che mai nella costruzione dell’immagine e nella creazione di spazi fatti di forme essenziali e geometriche – di incredibile potenza visiva (minimalista) l’entrata nella “cellula” nera - che fanno presagire e marcano un senso di minaccia aleggiante e incombente, che forse già esiste ma ancora rimane intangibile.


Grazie al prezioso mezzo di uno sci-fi teso e intelligente, Villeneuve continua la disamina della natura umana e del rapporto del singolo con l’elemento estraneo, ponendo da subito questioni riguardo l’importanza del canale di comunicazione – uno schermo bianco, guarda caso – e del mezzo di comunicazione per aprire la possibilità, solo in un secondo momento, di stabilire altri tipi di contatto e giungere all’intesa rigettando la contesa. È accennata la materia trattata, con Enemy, dell’inconscio che modifica la realtà percettibile, che subisce un capovolgimento significativo tramite l’idea di una realtà sconfinata che intacca l’inconscio. Anche le sembianze dell’ectapode (soprattutto quando irrompe in sogno) richiamano, forse volontariamente, quelle dell’aracnide che in Enemy invade gli spazi urbani e (o perché) si addentra nella mente del protagonista. Questo meccanismo, in grado di fornire il giusto carico di tensione per la prima metà del film, crolla inesorabilmente nel momento in cui la natura degli alieni viene svelata e i nodi dovrebbero venire al pettine: lo fanno, ma in maniera non troppo convincente e piuttosto sbrigativa se si considerano le numerose ingenuità concernenti lo script e una banale visione eccessivamente americanocentrica e antropocentrica che spazza via l’affascinante apparato costruito da Villeneuve nel primo tempo. I tempi estesi, trafelati, allargati del sofisticato thriller di Villeneuve, pulsante e mirato a sviscerare ogni falla nella fragile fibra morale umana, vengono rimpiazzati dai ritmi frenetici dell’action-thriller tipicamente nolaniano (impossibile non pensare alle architetture e alle sequenze d’azione presenti in Inception e Interstellar): è un’operazione rischiosa, che non lascia tempo e spazio per assimilare e approfondire i tanti temi presi in considerazione. Forse, però, il problema più grave è che l’approccio cervellotico e macchinoso di cui Villeneuve si serve per fabbricare i propri giochi di tensione è, in Arrival, solo smussato, indebolito, ma mai addolcito da un’opportuna controparte “emotiva”, nonostante l’aver delineato un tragedia umana non da poco. Insomma, Arrival è un cinema d’intrattenimento ibrido che funziona, ma che pecca nel vestirsi di qualcosa di più.


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