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Suburra: la recensione della prima serie tv italiana su Netflix

13/11/2017 11:00

Lorenzo Bagnoli

Recensione Serie TV, Netflix Original, Film Italia, Crime, Suburra,

Suburra: la recensione della prima serie tv italiana su Netflix

La prima serie italiana originale Netflix ha diviso pubblico e critica tra chi la ama e chi la odia: la nostra recensione di Suburra

La prima serie italiana originale Netflix ha diviso pubblico e critica tra chi la ama e chi la odia: la nostra recensione di Suburra

Suburra - La Serie, disponibile sul portale streaming dal 6 ottobre, è ispirata al romanzo del giornalista Carlo Bonini e dello scrittore Giancarlo De Cataldo, dal quale Stefano Sollima, nel 2015, ha già tratto un film. La serie è una sorta di prequel, ambientata nel 2008, mentre il film racconta la Roma del 2011.

 

Tante le aspettative: Netflix, il colosso che sta riscrivendo la storia del cinema e della televisione, poteva portare all’estero un prodotto italiano diverso da quelli che abitualmente si vedono nelle nostre sale o in tv. O forse no. Queste grandi attese, infatti, non possono dirsi pienamente soddisfatte da Suburra - La Serie: alla resa dei conti, la serie è banale, ripetitiva, vittima degli stereotipi nei quali è racchiusa Roma. Le circostanze, forse, sono legate anche al pubblico internazionale a cui si rivolge: non è la prima volta, infatti, che una storia italiana, quando finisce in un’opera cinematografica rivolta all’estero, diventa bozzettistica. Un esempio su tutti, in un genere totalmente diverso: il documentario Videocracy di Erik Gandini, film che racconta sommariamente il modo in cui Silvio Berlusconi ha trasformato gli elettori in telespettatori durante i suoi governi.

 

Oltre la decadenza

La bellezza mozzafiato della Roma del Campidoglio e di Castel Sant’Angelo sono set secondari rispetto al X Municipio: Ostia, il cuore della criminalità organizzata romana. L’antica Suburra dei latini, la zona franca nella quale assecondare ogni vizio capitale, è l’attuale Rione Monti, in pieno centro città. Quel luogo oggi si è spostato ben oltre le mura, a Ostia: ed è questo il centro delle storyline più interessanti della serie.

 

Peccato che questo percorso narrativo, criminale, sia diluito nella Roma più canonica: per citare la theme song 7 vizi capitale, firmata Er Piotta, Roma è «benedetta a volte Cristo a volte Giuda/ Roma barbara e cultura, dna complesso/Roma è così che fa, seduce dall'ingresso/triste come un tango, tra l'oro e il fango». In sintesi, la Capitale de La Grande Bellezza: decadente e affascinante. In Suburra - La Serie, invece, non c’è bellezza, non c’è nobiltà, né seduzione

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La vicenda criminale

Aureliano Adami (interpretato da un ottimo Alessandro Borghi), Alberto Anacleti, detto Spadino (Giacomo Ferrara) e Lele (Eduardo Valdarnini) sono i tre giovani protagonisti. Si incontrano in una di quelle feste dove si toccano i tre mondi di cui è composta Roma, nella teorizzazione tanto cara al giornalista Carlo Bonini: il mondo di sopra, quello dell’alta società, dei politici, degli alti prelati, della grande impresa; quello di mezzo, composto da criminali in doppiopetto e faccendieri; quello di sotto, abitato da killer, spacciatori, sanguinari delinquenti di strada. Lele ha organizzato la festa: figlio di un poliziotto, frequenta i luoghi sbagliati, nonostante un destino già segnato tra le forze dell’ordine. Nella serie non si riuscirà mai a capire fino in fondo questa sua vocazione per la cattiva strada, ma entro la fine della prima stagione la sua vita cambierà. Il ragazzo, aspirante affiliato al mondo di mezzo, deve rimediare a uno sgarro fatto al criminale più potente di Roma: il Samurai. Questa sua necessità è il motore che aziona la storia.

 

Spadino e Aureliano, invece, appartengono al mondo di sotto. Due giovani costretti ad aspettare il loro turno per comandare, refrattari alle regole e alle tradizioni. Il primo è fratello del capo del clan sinti, gli “zingari” come li chiamano a Ostia. Costretto a sposare Angelica (Carlotta Antonelli), per suggellare un’alleanza fondamentale per la sua famiglia, Spadino non ci sta a farsi sottomettere dal fratello maggiore Manfredi (Adamo Dionisi), che ha in mente il bene del clan e aspira ad affrancarsi dall’essere eterno secondo ad Ostia.

 

Aureliano, invece, vorrebbe essere il capofamiglia, ma è tenuto fuori dalle faccende importanti perché il padre lo ritiene inadatto al comando, immaturo e irascibile. Dei tre, è il criminale più sanguinario, il più visceralmente legato alla strada.

 

Così, il padre cerca di passare il testimone alla sorella Livia (Barbara Chichiarelli). Ognuno con la propria rabbia, i tre si ritrovano alla festa di Lele. Il pilot inizia e finisce con questa improbabile alleanza: a farne le spese è un alto prelato, tra orge e pasticche

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Una narrazione con il fiato corto

La vicenda di Suburra - La Serie s’impoverisce quando cerca di inserire il Campidoglio (il pilot è ambientato nei giorni delle dimissioni del sindaco) e il Vaticano, due temi a sé che faticano a intrecciarsi adeguatamente con il resto della storia. Queste due vicende tolgono respiro alla narrazione, che non si riesce mai a distendere per davvero: colpa anche di un odioso stilema per cui ogni puntata si apre con l’episodio clou, per poi riavvolgere il nastro all’indietro dopo la sigla e dopo un didascalico Il giorno prima.

 

Dell’ossigeno tolto alla storia si sente la mancanza. Spadino, Lele e Aureliano evolvono in modo sincopato, senza naturalezza. La famiglia sinti, potenzialmente la più intrigante da raccontare, rimane bidimensionale, costretta nella claustrofobica villa barocca del litorale ostiense. Si intravede in alcune frasi di Livia Adami rivolte alla prostituta di colore, che diventerà amante di Aureliano e quindi sua “rivale”, una nota razzista che fa pensare all’estrema destra (tanto influente da quelle parti): ma resta solo una sensazione, un’idea narrativa buttata lì per giustificare l’odio tra queste due donne.

 

Suburra VS Gomorra

ll confronto con la produzione 100% made in Italy Gomorra – La serie viene quasi naturale. La criminalità di Suburra, quella di Mafia Capitale, non è il sistema di Casal di Principe. La prima è una mafia che costruisce il proprio potere sulle relazioni, sugli affari, sulla sua capacità di inquinare tutto ciò che entra in suo contatto. È un mafia difficile da raccontare. Casal di Principe, invece, è un fortino, è un luogo dove sul quale la camorra esercita un potere militare che è immediato da raccontare e che, come un pugno, arriva subito allo spettatore.

 

Pietro Savastano è un boss che ben esemplifica la camorra. La sua storia è ispirata a quella di Paolo Di Lauro che, come il boss della fiction, dopo essere evaso dal carcere ha dovuto vivere nell’ombra. Incutendo ugualmente paura. Il problema del boss di Gomorra è la relazione con il figlio Gennaro, al quale non vuole cedere lo scettro.

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All’opposto, il Samurai esprime il suo potere solo con la sua presenza in ogni ambiente: la sua vera arma sono le relazioni che il mondo di mezzo gli permette di intrecciare. Questa “criminalità di relazioni”, tanto terrificante quanto attuale, ha evidentemente bisogno di tanti dialoghi per esprimersi. Ma anche questi, in Suburra, sono sincopati: le scene sono spesso molto brevi, la maturazione psicologica dei personaggi accennata.

 

Il Samurai non dorme mai e ha una madre malata a cui badare. Non riesce mai ad apparire davvero potente: sembra che sia destinato a finire da un momento all’altro; sembra dipendere sempre da quello che gli porteranno le sue relazioni e che mai otterrà solo con la sua forza.

 

S’impone, perché può vantare amicizie in Cosa Nostra (un aspetto della criminalità romana visto meglio nella vicenda della Banda della Magliana in Romanzo Criminale) e che in questo caso, però, resta senza alcuno sviluppo. Almeno al momento. In fondo, il Samurai fa pena: senza nemmeno uno scagnozzo intorno, sempre costretto a inseguire una città che non sembra davvero “comandabile”. Troppo grande, troppo corrotta, troppo complessa. Proprio come la serie e proprio come l’intera trama, anche il suo boss protagonista, alla fine, appare davvero troppo innocuo.

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