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Captive

25/02/2013 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Captive

Un cammino lungo 120 minuti nella giungla filippina, tra Lamitan e Basilin, per sopravvivere ad un sequestro e raggiungere la libertà...

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Un cammino lungo 120 minuti nella giungla filippina, tra Lamitan e Basilin, per sopravvivere ad un sequestro e raggiungere la libertà. Attorno alla magnetica presenza di Isabelle Huppert il regista filippino Brillante Mendoza costruisce una drammatica trama itinerante.


Nella primavera 2001 a Palawan, nelle Filippine, una banda di separatisti islamici fedeli ad Abu Sayyaf, sequestra un gruppo di stranieri, per lo più turisti, residenti in un resort dell’arcipelago. Lo scopo dei rapitori è quello di barattare gli ostaggi con l’indipendenza dell’isola di Mindanao. Ma sin dal principio le trattative si rivelano complesse e rapitori e ostaggi – di cui fa parte anche anche l'assistente umanitaria Therese Bourgoine (Isabelle Huppert) - cominceranno un viaggio lungo oltre un anno prima della loro liberazione.


A lungo atteso, prima a Cannes e poi a Venezia, Brillante Mendoza ha scelto invece Berlino per presentare una pellicola ispirata da una storia vera, un inseguimento coinvolgente della libertà, una realistica fuga dalla prigionia. L’ambientazione selvaggia, sterminata eppure claustrofobica, costituisce una lunga metafora che pervade il film: uno slancio, che mai, almeno fino alla fine, si realizza nel concreto raggiungimento della liberazione. La presenza lungo tutta la pellicola di immagini allegoriche - come il serpente che cattura la preda, o l’insistere sulla giustapposizione del tema della vita e di quello della morte - determina quell’atmosfera sospesa che pervade l’intera pellicola. Captive è un percorso vorticoso che non rinuncia all'andamento vettoriale indirizzato alla star del film (attorno alla quale Mendoza ha riunito un cast di non professionisti): Isabelle Huppert, reduce dalla folgorante interpretazione nel premiatissimo Amour di Michael Haneke. Nonostante la grandiosa interpretazione dell’attrice francese nel personaggio di Therese, Medoza si concede qualche scivolone semplicistico: nel ritrarre, quasi agiograficamente, il personaggio della Huppert il regista cede all’ingenuità, così come nella rappresentazione degli spiritualismi e della religiosità – tanto quella estremista dei rapitori quanto quella placida dei sequestrati - e nelle dinamiche politiche e belliche che da decenni tempestano la terra filippina. Nonostante questi limiti e sebbene Captive sia finora la più ambiziosa e costosa opera del regista filippino – numerosi gli effetti ottenuti con la tecnica computerizzata, come il coloratissimo allegorico uccello tropicale, insieme ad un set di riprese decisamente ostico - Mendoza non rinuncia a costruire il suo film come un intimistico gioco di rimandi tra i sentimenti dei protagonisti e l’ambiente circostante. Un esempio su tutti, la drammatica sequenza del parto, che simbolicamente affianca alla nascita la strage che avviene alle spalle, unificando le due scene attraverso lo scorrere del sangue. Cavalcando quei temi che si erano rivelati vincenti nelle due apprezzatissime opere precedenti, l’initimismo spiazzante di Lola e la storia di violenza del dirompente Kinatay, Mendoza riempie il suo film di angoscia e di speranza, facendo percorrere – forse un po’ troppo lentamente - ai suoi protagonisti la via che dal fango porta alla libertà.


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