Antonio (Antonio Albanese) – divorziato ma con un figlio brillante e affettuoso - vive a Milano dividendosi tra i tanti lavori precari che lo portano ad avere ogni giorno una logorante, differente professione tra i mercati popolari e le fabbriche, tra le prepotenze di un misterioso quanto sfruttatore datore di lavoro. Un giorno, ad un esame, conosce Lucia (Livia Rossi), una giovane donna che vive al limite dell’indigenza, che attirerà su di sé le attenzioni e le premure di Antonio e lo porterà ad interrogarsi sulla propria condizione. Dietro la leggerezza quasi fiabesca, un’atmosfera sospesa e irreale, L’Intrepido, ultimo lavoro di Gianni Amelio, cela un sottotesto aspro che in una delicata amarezza ritrova la cifra del proprio autore. Una Milano invernale, asettica e metallica, restituita nella fotografia gelida di Luca Bigazzi, fa da quinta alla favola di ispirazione neorealista che rimanda ad un’epoca trascorsa del cinema italiano. Amelio, congedatosi dal suo pubblico oltre un anno fa con il poetico romanzo su schermo Il Primo Uomo, tratto da un autobiografico Albert Camus, torna con una pellicola che vira bruscamente dalle precedenti atmosfere per ritmo e idee ma che di esse mantiene una certa impostazione sognante, unica soluzione realmente riuscita in un film confuso e di incerte intenzioni. Da uno spunto di sceneggiatura intelligente, in grado di alternare una carezzevole ironia con una lieve ma costante drammaticità, il regista prova a costruire una commedia delle maschere facendo del protagonista Antonio un tragico saltimbanco, che si veste delle sue tante professioni svilenti come un giullare, costretto a sorridere anche alla malasorte, alle pene d’amore, al destino avverso. L’irrealtà delle vicende che coinvolgono Antonio, pur stonando in più di un momento con i pretesi riferimenti d’attualità (la condizione degli immigrati, la mancata tutela delle leggi del lavoro), fanno del protagonista un’astrazione e, caratterizzandolo come “uno dei tanti precari d’Italia”, lasciano apprezzare maggiormente il racconto come una storia umana contemporanea ma universale. Peccato che sin dalle prime battute il film si classifichi come un prodotto incapace di scegliere dove collocarsi: tra la commedia, la farsa o il racconto sociale, tra il cinema classico di casa o il melodramma d’importazione. Tra buone ricostruzioni di surrealtà e una riuscita rappresentazione dell’assurdità del precariato, nel tono sognante di diffuso “realismo magico” la pellicola perde la sua forza in luoghi comuni e dialoghi banali e si risolve piuttosto in un piccolo melodramma, che si spegne sempre più avvicinandosi al finale. L’Intrepido è una favola che non trova il coraggio né di affondare fino in fondo nel dramma né di abbandonarsi alla leggerezza, scegliendo invece di caricare le spalle di Antonio Albanese – buon protagonista ma lungi da essere un mattatore – di un peso troppo gravoso che passa per l’intrattenimento e giunge alla pubblica riflessione. Sebbene qualcuno abbia già paragonato l’espressione bonaria e timida del comico – svestitosi ormai dei feroci panni del volgare ma divertente, e intellettualmente onesto, Cetto La Qualunque – ai protagonisti del cinema muto di un tempo e persino ad un novello Chaplin, nell’amara ironia di Gianni Amelio, che pure con tanta insistenza lo aveva immaginato e voluto nella sua pellicola, Albanese appare trovarsi solo parzialmente a suo agio.