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Yves Saint Laurent

19/03/2014 11:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Yves Saint Laurent

Nel 1957, a soli 21 anni, Yves Saint Laurent (Pierre Niney) prende il posto del defunto Christian Dior alla direzione della prestigiosa maison per cui lavora da

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Nel 1957, a soli 21 anni, Yves Saint Laurent (Pierre Niney) prende il posto del defunto Christian Dior alla direzione della prestigiosa maison per cui lavora da anni. Nonostante la sua prima collezione sia un successo, lo stress, insieme allo scoppio della guerra d'Algeria, provano di molto i nervi dello stilista e lo costringono ad abbandonare l'atelier. Sarà grazie all'incontro con Pierre Bergé (Guillaume Gallienne), prima sentimentale poi professionale, che Saint Laurent potrà fondare il proprio marchio YSL e condurlo con successo anche dopo la rottura con il proprio mentore e nonostante gli eccessi e la tendenza costante alla depressione.


Esattamente come Coco Chanel ad inizio secolo liberò le donne di Francia (e poi di tutto il mondo) dalle costrizioni del busto e dai barocchi delle sartorie, per poi inventare uno stile eterno per eleganza e semplicità, Yves Saint Laurent fu lo stilista che più degli altri – più dello stesso Dior – seppe recuperarne l'eredità e traghettarne le innovazioni lungo tre decenni, dagli anni sessanta del boom sino agli anni ottanta del glamour. Se Chanel fino agli anni Cinquanta vestì personalmente le donne di tutto il mondo di femminilità, Yves Saint Laurent sostituì il tailler con lo smoking portando per primo il mito dell'adroginia nella moda.


Il cinema francese adora celebrare i propri miti a tal punto che il film biografico è diventato da qualche anno un genere quasi esclusivo, con risultati qualche volta eccezionali, altre volte più zoppicanti. Restando in tema, solo cinque anni fa usciva nelle sale Coco Avant Chanel, il prezioso biopic di Anne Fontaine interpretato da Audrey Tatou, un ritratto personale di un mito che trovava nella moda non un ritornello ma lo sfondo per raccontare una storia d'amore affascinante. Nel 2014 di pellicole dedicate a Yves Saint Laurent ne escono ben due: il ritratto diretto da Jalil Lespert e il romanzone di Bertrand Bonello, quest'ultimo con interpreti Louis Garrel e Léa Seydoux, un'opera destinata a maggior risalto eppure non consacrata dai favori di Pierre Bergè, a differenza dell'Yves Saint Laurent di Lespert. In attesa di vedere il risultato di Bonello, la scelta del mentore di YSL di benedire l'una invece che l'altra pellicola pare giustificarsi in relazione alle scelte documentarie, quasi filologiche, persino ordinarie, fatte da Lespert nel ritrarre il suo protagonista. Chi si aspetta un ritratto d'artista innovativo, ne sarà deluso: Yves Saint Laurent, raccontato da Lespert, ricalca alla perfezione lo stilista non solo nei tratti somatici e fisici (il pallore, la bocca lievemente curva, la struttura fragile) ma anche la tradizione che lo ricorda un uomo nervoso, perennemente sotto stress, instabile e infelice. Il perfetto physique dell'artista tormentato, i cui dissidi psichici impegnano Lespert in caratterizzazioni che coinvogono la sfera professionale, creativa, sentimentale e sessuale. Ognuna di queste, priva di qualsiasi apporto di novità. Yves Saint Laurent è stato un personaggio di grande fascino, la cui vicenda creativa – al pari di quella di Chanel – meriterebbe una filmografia a sè, così come l'intensa storia d'amore pigmalionica con Bergè, l'uomo che ha portato nella vita dello stilista non solo lo spirito imprenditoriale (in lui assente) ma anche tutta la cultura artistica che sta dietro a collezioni eterne come quella ispirata ai capolavori pittorici del Novecento. Eppure Lespert pare non curarsi poi molto di sottolineare l'epica che sta dietro al suo protagonista, preferendo il ritratto ordinario di un artista con l'aspetto di un contabile e le complulsioni di un folle. Fatta eccezione solo per la trattazione del rapporto «triangolare» fra Saint Laurent, Bergè e la modella Victoire Doutreleau, musa dello stilista e oggetto di desiderio sospeso fra creazione artistica e sessualità – unico momento in cui il film mostra di occuparsi in profondità dell'anima inquieta dello stilista – il film di Lespert è un'opera di poca originalità e fantasia, dotata (soprattutto nel secondo tempo) dei tempi lenti del documentario e del tono isterico della soap opera.


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