Per chi non è di Roma, il nome Muccassassina probabilmente non fa accendere alcuna lampadina. Ma per chi vive nella capitale il nome della serata a tema omosessuale che si tiene ogni venerdì all’interno della discoteca Qube è un vero e proprio bagaglio culturale. Ed è all’interno di questa realtà omosessuale che emerge la figura di Davide Cordova, in arte conosciuto come Fuxia, drag-queen simbolo del locale e ora materiale narrativo per l’esordio alla regia di Sebastiano Riso, Più buio di mezzanotte, presentato in anteprima al festival di Cannes 67. Davide è un ragazzino che nella Catania degli anni ’80 si sente diverso da tutti quelli che lo circondano. Nel suo aspetto c’è qualcosa che lo etichetta quasi all’istante come emarginato, strano, diverso. Una condanna che il ragazzino si porta addosso, tanto da spingerlo a scappare da una casa guidata da un padre-padrone vecchio stampo ed eccessivamente violento e una madre cieca, che sembra essere presente solo per fare da tappezzeria. Davide scappa, cercando se stesso e la sua vita, finendo per mettere le tende a Villa Bellini, dove altri emarginati come lui si sono costruiti un’esistenza lontana dalle tensioni precedenti. Per un po’ Davide pensa di essere arrivato al luogo dove poter trovare serenità , ma la sua identità e il bisogno spasmodico di lasciarla libera di esprimersi lo porteranno in un mondo sinuoso e maledetto, fatto di amore, prostitute, magnaccia e disavventure più o meno gravi. Davide Capone presta il volto al protagonista di Più buio di mezzanotte e lo fa con una grazia e una profondità capace di catturare lo spettatore sin dalle prime inquadrature. Sul viso dell’attore passano in rassegna gli spettri camaleontici delle emozioni di un ragazzo che, crescendo, deve imparare prima di tutto a conoscere se stesso. Sulla soglia dell’adolescenza più turbolenta, il ragazzino parte alla volta di un percorso di crescita che i toni del cinema queer e le note usurate di Donatella Rettore rendono forse stereotipato, ma non per questo meno coinvolgente. Dalla cotta per un ragazzo più grande al primo bacio rubato con l’arguzia di uno scienziato, Davide corre, guarda, scopre e ha paura. E quando la macchina da presa di Sebastiano Riso è ferma su questo ragazzo indifeso e determinato al tempo stesso Più buio di mezzanotte funziona molto bene. Lo spettatore accetta di buon grado i cliché, il senso di deja-vu, lo stereotipo sempre in agguato dietro all’angolo, che non rappresentano altro che tappe comuni nell’esistenza umana. Purtroppo, però, quando quello sguardo si allarga ad abbracciare anche altro – l’inutilità della presenza dei genitori, la cecità della madre Micaela Ramazzotti, il pappone Pippo DelBono – il film perde mordente e mostra le lacune che non si devono cercare tanto in ambito tecnico, quanto di scrittura. La regia di Sebastiano Riso è puntuale, precisa, personale. A livello stilistico, in questo senso, non manca niente. A mancare è una sorta di unità di base, un’unione drammaturgica capace di dar senso a tutte le incognite messe in gioco, che il più delle volte invece si trovano a trottare impazzite all’interno di un universo diegetico ora poetico, ora troppo artificioso.