Mentre in Medio Oriente continua la disputa tra Isrealiani e Palestinesi, con tutto l’occidente che si ferma a guardare, commentare e giudicare quanto avviene in una guerra che ci è pericolosamente vicina, al cinema arriva – con ben tre anni di ritardo rispetto all’anteprima mondiale – Le cochon de Gaza, titolo che è stato poi tradotto in Italia con il lambiccato Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’oriente. La storia è quella del pescatore palestinese Jafaar (Sasson Gabay) il quale, durante una pesca grossa, attira nella sua rete un panciuto maiale vietnamita, l’animale impuro per musulmani ed ebrei, caduto in mare chissà da quale nave e finito a nuotare nelle acque al largo della striscia di Gaza. Jafaar, che in base ai dogmi della sua religione non ama l’animale, cerca di liberarsene, tentando anche di venderlo per tirare su qualche soldo. Quando però tutti i suoi tentativi finiscono nel proverbiale buco nell’acqua l’uomo non può far altro che inventarsi un nuovo stratagemma per sfruttare il maiale piovuto del cielo e racimolare un po’ di denaro. L’avventura permetterà a Jafaar di conoscere realtà estranee alla propria, spingendolo a percorrere il cammino che potrebbe trasformarlo in una sorta di profeta per il medio oriente. Il debutto alla regia di Sylvain Estibal è una pellicola con una molteplicità di anime; un racconto multistrato che miscela la politica alla fiaba, l’ottimismo alla guerra, cercando di sdrammatizzare il conflitto isrealo-palestinese senza dimenticarsi mai di sottolinearne la gravità e l’orrore. Un compito assai gravoso per un regista uruguayano che tenta il proprio debutto cinematografico poggiando i piedi su un argomento tanto vasto e, allo stesso tempo, spinoso. Per l'appunto Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’oriente risente di una tale carica contenustica. Pur con il grande apporto dato dalla mimica dell’attore protagonista, Sasson Gabay, che riesce alla perfezione a calarsi nei panni di un eroe inconsapevole, Le cochon de Gaza è un film discontinuo, dal ritmo altalenante. Costruito con attenzione – ad esempio, la presenza della guerra non viene mai gettata di fronte allo spettatore, ma piuttosto suggerita attraverso la presenza massiccia di militari e armi dovunque lo sguardo si posi – il debutto di Sylvain Estibal finisce spesso con il puntare tutto su una facile ironia e su gag estemporanee piuttosto che focalizzarsi su una storia originale. Si ha infatti la sensazione che, pur con tutti i buoni ideali che hanno accompagnato la realizzazione, il regista abbia perso per strada il suo obiettivo narrativo, spingendo così verso un finale fin troppo semplice e buonista che cancella, con una sola pennellata, l’ibridazione tra il lato grottesco del racconto e la sua aderenza ad una situazione storica e politica ben precisa.