È sera o forse l’alba. Alcuni bambini e adolescenti – ciascuno con in mano il proprio sacchetto – percorrono una strada all’interno di un piccolo villaggio. Poi, un effetto reverse li fa camminare all’indietro, in modo innaturale. La musica che li accompagna suona dolce e inquietante al tempo stesso. È notte. Il gruppo entra in un grande capannone e tutti si mettono a dormire sdraiati per terra, mentre un uomo passa tra di loro con una torcia. Si alternano a queste immagini quattro potenti primi piani di ragazze e ragazzi che guardano dritto in camera mentre le lacrime sgorgano dai loro occhi. È l’incipit surreale e suggestivo di Eau Zoo, primo lungometraggio scritto e diretto dalla belga Emilie Verhamme, dopo i cortometraggi Tsjernobyl Hearts (2013) e Cockaigne (2011). Il film, presentato alla 32esima edizione del Torino Film Festival, mette a tema il sempiterno scontro tra passato/presente, nuove/vecchie generazioni, seguendo le vicende di un’esigua comunità raccolta significativamente entro gli angusti confini di una piccola isola. L’ingiustificata, ma soverchiante, paura di un’ineludibile minaccia dall’esterno porta gli adulti del luogo a barricarsi in una paranoica e soffocante iperprotettività , che sfocia in sessioni di duro allenamento imposte ai ragazzi perché siano pronti a sopravvivere in qualsiasi condizione. La ferrea disciplina richiesta al giovane Martin (Martin Nissen, già protagonista di Tsjernobyl Hearts) dal suo stesso padre (Clement Bertrand) non può non richiamare alla memoria le faticose prove alle quali vengono sottoposti i tre figli nella bizzarra famiglia protagonista di Kynodontas di Yorgos Lathimos: in entrambi i casi c’è un esterno – l’altro, il mondo, il domani – al quale si guarda con un sentimento di sfida, repulsione e terrore e dal quale ci si separa rimarcando con convinzione i confini (il mare in un caso, la siepe attorno al giardino nell’altro). I giovani, incapaci di accettare norme e tradizioni crudeli delle quali non riescono a cogliere il senso, si ribellano, lottando per creare un proprio spazio privato - fisico ma soprattutto simbolico - da gestire secondo regole forse confuse ma senza dubbio autentiche. Martin e la sua ragazza Lou (Margaux Lonnberg) cercano scampo nell’amore, ma non sempre la reciproca fiducia saprà essere sufficientemente salda. Almeno fino al finale di evidente stampo shakespeariano, che accelera sensibilmente il corso degli eventi e il ritmo del film. Emilie Verhamme fa largo uso di zoom che consentono di seguire i personaggi da lontano: si muove così - con discrezione - tra giovani e adulti, indagandone con scientifico rigore il comportamento e il reciproco relazionarsi, quasi si trattasse di animali nella cattività dello zoo. Sebbene non tutti gli ingranaggi che compongono quel complesso meccanismo che è Eau Zoo vengano tenuti insieme con facilità , il film riesce, con la sua atmosfera sospesa e surreale, a coinvolgere lo spettatore in un’appassionata e viscerale difesa della libertà e della giovinezza. Fino all’ultima immagine, che propone Martin nei panni di un novello Antoine Doinel - protagoista de Les Quatre Cents Coups di Francois Truffaut - emblema di un ribellismo che ha stravolto la storia del cinema. Infine, un attimo prima che comincino a scorrere i titoli di coda, ecco che fa la sua fugace comparsa sullo schermo il monito «Arrȇtez de vous reproduire», più pesante di qualsiasi sipario.