Basta apparire. In due parole la sintesi perfetta del legame malato che unisce la Televisione italiana al suo pubblico: la scatola magica che cambia la vita, ovvero successo, potere e soldi alla portata di tutti in cambio di quell’unica apparizione che può regalare popolarità e fama (molto poco) eterna; non più mere spugne pronte ad assorbire passivamente il flusso delle immagini, ma parti integranti del gioco, ingranaggi del sistema. Erik Gandini, regista bergamasco, trasferitosi in Svezia nemmeno ventenne, getta uno sguardo impietoso sulla Televisione Italiana, “binomio perfetto caratterizzato da politica e intrattenimento televisivo”, un teatrino di marionette le cui fila sono tenute dal Gran Burattinaio Silvio Berlusconi, prima magnate della TV e poi Presidente del Consiglio. L’impatto delle sue televisioni commerciali sul pubblico è stato così alto da creare una vera e propria “videocrazia in cui la chiave del potere è l’immagine”. Un potere che si fonda sulla creazione dei cosiddetti eventi, sulla ricerca dello spettacolo a tutti i costi e sull’informazione da operetta; un sistema che si nutre di realities, di quel tipo di spettacoli che negli USA chiamano molto sinteticamente T&A (tits and asses), di pubblicità e della creazione di miti dal nulla. Il risultato sono orde di ragazzi e ragazze le cui maggiori aspirazioni sono di diventare veline, tronisti, meteorine e concorrenti del Grande Fratello: la strada verso il successo e l’affermazione personale passa dalla televisione. Gandini parte dalla storia di un giovane ragazzo lombardo, Riccardo, stanco della vita da operaio e alla ricerca del grande salto dopo anni di provini per svariate trasmissioni e di decine di apparizioni come “pubblico”: i suoi pensieri sulle donne che nemmeno ti guardano se fai l’operaio e sui compromessi da fare per entrare nel mondo dorato dello spettacolo fanno da linea-guida del racconto. Affidandosi principalmente alle immagini e alle interviste, lasciandosi uno spazio relativamente breve per i propri commenti, Gandini passa a volo radente attraverso i capisaldi della tv berlusconiana, dal “dietro le quinte” del Grande Fratello ai provini per le varie trasmissioni defilippiane. Difficile rimanere indifferenti di fronte allo squallore delle preselezioni delle veline che ballano ammiccanti nella piazzetta del paese riscuotendo gli applausi di un pubblico composto principalmente da parenti, mamme e papà, nonni e nonne; impossibile non rimanere allibiti di fronte al livello cui si è disposti a varcare nei provini pur di riuscire a sfondare. Il regista infine ci fa incontrare da vicino due personaggi che grazie all’enorme baraccone mediatico sono diventati ricchi e famosi: l’agente dei vip Lele Mora e il re dei paparazzi Fabrizio Corona; il primo intento a gestire uno squadrone di celebrità dalla sua villa in Sardegna, tra cocktail e inni nostalgici (guardate la sua espressione mentre fa ascoltare “faccetta nera” dal cellulare), l’altro pronto a vendere e a lucrare su qualsiasi cosa, definendosi una novella versione di Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso (sic…). In un mondo dove tutte le ragazze sono formose e disponibili e gli uomini palestrati e abbronzati, dove chi conta davvero sono coloro che non vengono bloccati dal buttafuori all’ingresso del Billionaire, i detentori di questo grigio potere sono la Televisione e il suo Presidente, e per i comuni mortali è rimasta solo una speranza. Basta apparire.