Les Beaux Jours d’Aranjuez, presentato in concorso alla 73ª Mostra di Venezia, è l’ultima pellicola nata dalla consolidata collaborazione tra Wim Wenders e Peter Handke: un particolare viaggio in 3D fatto di ricordi e nostalgia. Una pellicola difficile, almeno nella fruizione, che costringe lo spettatore a prendere confidenza con la messa in scena solo dopo un po’, spiazzato da un dialogo immaginato da un autore e personificato allo stesso tempo dai suoi due protagonisti, sulla scena. Tratto dall’opera dello stesso Handke, il film è una performance teatrale che ha il suo palcoscenico in un giardino, e nulla di più. Ci troviamo infatti immersi in uno stato d’animo, che oscilla tra passato e presente, dove un uomo e una donna si fanno domande sul sesso, sull’amore e i sentimenti, pescando le risposte in un passato nostalgico e definitivo. Wenders non nasconde la finzione, mostrando l’autore che crea battendo i tasti della sua macchina da scrivere i suoi personaggi, ma riesce a caricare la pellicola di realtà . Riducendo infatti il lasso di tempo che intercorre tra la scrittura e le performance dei suoi protagonisti ci troviamo di fronte a un piccolo paradosso, affascinante e inquietante allo stesso tempo. Un uomo, dicevamo, una donna e una mela: palese metafora del primo uomo, della prima donna, di un ‘peccato’ che sia peccato, e di un Creatore, dietro di loro, che li guida in silenzio. Con Les Beaux Jours d’Aranjuez, assistiamo a un lungo dialogo che contrappone quasi il femminile al maschile. Una conversazione intima, collocata in un paesaggio affrescato con pennellate placide che infondono quiete. E poi una casa, dietro quel giardino, in cui l’autore si nasconde mostrandosi, con incredibili non sense. Indubbiamente una pellicola affascinante, impreziosita dalle performance degli attori - Reda Kateb, Sophie e Jens Harzer (più un cameo del cantautore Nick Cave e dello stesso Peter Handke), questa coproduzione franco-tedesca, ma che paga lo scotto di essere davvero poco fruibile. Se non possiamo non lodarne gli aspetti estetici, la fotografia e la ricerca metaforica, dall’altro lato, è inutile dirlo, i pochi elementi scenici contrapposti a dialoghi lunghi ed ermetici non riescono a dare ritmo alla narrazione, penalizzata da una rappresentazione statica e monocorde. Manca un certo livello di tensione che permetta di arrivare meno stanchi alla fine quando, tutto in questa operazione maieutica si riempie, improvvisamente, di senso.