Lockhart è un giovane broker di Wall Street. Viene incaricato di riportare a New York Pembrooke, l’amministratore delegato dell’azienda, che si è allontanato dal lavoro per un lungo soggiorno in una clinica di riposo situata nelle Alpi Svizzere. L’operazione di recupero sembra riuscita ma sulla via del ritorno un misterioso incidente blocca il ragazzo, che si ritroverà a soggiornare nell’oscura clinica con una gamba ingessata. Durante la sua permanenza Lockhart indagherà sui sinistri metodi di cura e sui misteri che nasconde la struttura. Diretto dall'eclettico Gore Verbinski, La cura dal benessere è un film grottesco ma molto raffinato. La firma del regista è palese e come sempre Verbinski sfodera non poche chicche stilistiche: si passa dal gothic al thriller psicologico e le scene creepy sono curatissime. La fotografia è decisamente sontuosa: le atmosfere sono cupe e misteriose, ma le immagini hanno colori saturi e eleganti; protagonista è il blu profondo, lo stesso colore del siero contenuto nelle misteriose boccettine che vengono date ai pazienti. Spicca anche la prova degli attori, su tutti i tre protagonisti: il giovane uomo d’affari interpretato dal sempre bravo Dane DeHaan, l’inquietante direttore della clinica, il Dottor Volmer di Jason Isaacs e l’attrice e modella Mia Goth. Quello che probabilmente manca a La cura dal benessere è una trama più fluida. La storia è da un lato estremamente affascinante, un racconto della frenesia dei nostri tempi e della conseguente ricerca forzata del benessere; dall’altro si sprecano i rimandi a sci-fi movies, ai thriller più noti e a un altro film che tratta di una clinica misteriosa: Shutter Island di Martin Scorsese. Una curiosità : prima dell’uscita del film è stato fatto un’interessante lavoro di promozione, in cui sono stati condivisi sul web meme raffiguranti immagini inquietanti di cliniche di cura realmente esistenti. Tutto questo ha creato una discreta attesa nei confronti del film, che tuttavia — a dispetto delle atmosfere riuscite — manca di una storia forte e di un buon ritmo. Anche la colonna sonora, affidata a Benjamin Wallfisch, ricorda (troppo) le sonorità di Ennio Morricone. Il brano conclusivo, una cover acustica di I wanna be sedated dei Ramones, è emblematica per descrivere l’effetto di questo film: un’opera ben fatta ma non del tutto incastrata in un meccanismo funzionante.