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The Post

17/01/2018 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

The Post

Un ultimo, bellissimo, grido di libertà urlato dal cinema di Steven Spelberg

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Il 1974 è l’anno in cui Richard Nixon si dimise dalla sua carica di presidente per anticipare l'impeachment a seguito dello scandalo Watergate. Il 1976 è l’anno in cui lo scandalo fu portato su grande schermo da Tutti gli uomini del presidente, film-monumento che restituisce i dettagli investigativi e gli atti messi in pratica da una stampa più agguerrita e decisa che mai a disseppellire le vie sotterranee tramite cui il governo riuscì ad agire illegalmente. Tutti gli uomini del presidente è un film "di confine": vale a dire che esiste un prima e un dopo questa pellicola. Ed è proprio in questo grande disegno che The Post va a inserirsi: perché il veterano Steven Spielberg, da sempre abilissimo indagatore dell'uomo moderno, stavolta punta il suo sguardo su ciò che diede il via alla guerra in onore del Primo Emendamento; una legge che avrebbe dovuto garantire la libera espressione (inclusa la libertà di stampa) ma che, soppresso dal potere di un singolo uomo, fallì per anni. Praticamente, The Post racconta la goccia che fece traboccare il vaso, quella concatenazione di eventi che negli anni '70 rese possibile ogni altra scoperta mediatica a seguire.


Daniel Ellsberg, economista del Pentagono, sottrae i documenti di un rapporto segreto riguardo la guerra in Vietnam, destinata a fallire. Il New York Times divulga le informazioni, ma un’ingiunzione della corte suprema impedisce ulteriori pubblicazioni. Il Washington Post continua il lavoro grazie all’editore Katharine Graham e al direttore Ben Bradlee, e inizia una guerra contro il governo.


Steven Spielberg mette da parte scenografie imponenti e spettacolarismi vari: adotta il formato 1.85:1 (per la prima volta dopo La Guerra dei Mondi, 2005) e sorveglia il fidato direttore della fotografia Janusz Kaminski - che fa qui sfoggio di sorprendenti abilità camaleontiche, riadattando il suo stile alle necessità di un film realistico - in favore di un tratteggio autentico e una partecipazione emotiva più immediata, e meno “mediata”, con i suoi tanto umani personaggi. Quando si afferma che l’autorialità di Spielberg passa per le immagini non si dice qualcosa di così errato: quando Katharine Graham (una Meryl Streep magnifica come non la vedevamo da tempo) entra in una stanza, ad accoglierla c'è sempre una cinta di sguardi maschili che la esaminano da testa a piedi. La psicologia di questa donna passa, prima ancora che tramite la scrittura, attraverso i movimenti che il regista compie attorno a lei: sul suo volto, sulle sue esitazioni continue date dal dover giustificare il suo ruolo sociale. E non si critichi al regista la carta del femminismo facile, perché Kay Graham è una di quelle donne che la storia l’hanno fatta per davvero. Non la si critichi anche per la fedele delineazione del rapporto d’interdipendenza che c’è con la sua metà, lo “stoikiy muzhik” del grandioso Tom Hanks, un “uomo tutto d’un pezzo” come ne Il Ponte delle Spie (cui aggiunge un’adorabile attitudine mordace): senza il suo corpo scatenato e il puro acume la Graham non avrebbe conquistato il coraggio per mettere in gioco la propria vita sfidando Nixon, il Presidente. E non si dimentichi Daniel Ellsberg, altra scheggia impazzita che procurò, prima al New York Times e poi al più piccolo "rivale" Washington Post, i documenti scottanti cui aveva sempre lavorato.


D'altronde l'essere umano è, nel cinema di Steven Spielberg, una molecola in grado di smuovere interi equilibri tramite le azioni e le conseguenze che derivano dalle scelte di singoli individui, ma solo quando inseriti in una collettività operante: la fitta rete di fidati collaboratori rese possibile la difesa per il controverso presidente americano, così come l’editore Katharine e i suoi uomini riuscirono ad attuare il conflitto solo attraverso la brulicante macchina umana del Washington Post. E questo solido congegno Steven Spielberg lo riprende come riprende una creatura meccanica dotata di coscienza propria, aggirandosi fra gli uffici e girovagando tra le macchine rotative del ‘71 come un bambino curioso e un po’ ficcanaso. Tradendo un amore incondizionato per il genere, i Pentagon Papers diventano una sorta di gingillo da scovare e recuperare come il Santo Gral per Indiana Jones, ma poi da elargire al mondo per fare giustizia. Una giustizia basilare, semplice: la libertà di raccontare la verità che per oltre quattro mandati fu nascosta ai cittadini americani, tumulata sotto la bugia di una guerra in cui poter inutilmente riporre speranza. «La stampa doveva essere a servizio dei governati, non dei governanti» recita la sentenza del giudice presso la Suprema Corte, in un ultimo discorso che la perfetta sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer non risparmia. Un messaggio sostanziale, che affida un ideale a un mezzo di comunicazione, rispolverato in tempi bui da cui gli anni ’70 possono essere solo osservati come una stella lontana al telescopio. Un ultimo, bellissimo, grido di libertà urlato dal nostalgico cinema di Steven Spielberg, che è cresciuto e stavolta parla a tutti noi.


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