Alle soglie degli anni Quaranta, un gruppo di miliziani antifascisti cercano di scampare all’esercito franchista e si avventurano, nelle boscaglie, lungo i Pirenei sud orientali. Un anno più tardi, il medesimo percorso tocca a un altro gruppo di fuggiaschi, però, in direzione opposta: via dalla Francia occupata e collaborazionista. Antifascisti, intellettuali ed ebrei, verso un futuro migliore con più kilometri nelle gambe e qualche sogno in tasca. Tra loro, spicca il filosofo e scrittore tedesco Walter Benjamin: i suoi scritti hanno raccontato l’epopea degli “indesiderati”. La barbarie della guerra, le conseguenze del conflitto possono esser ricordate soltanto attraverso testimonianze e congetture. Le stesse che tornano attuali in tempi moderni, dove la caccia all’uomo – al capro espiatorio – assume altri contorni meno totalizzanti. I regimi, in particolar modo durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno tracciato il sentiero verso un’Europa selettiva e autarchica. Da questo deriva la “banalità del male”, messa in risalto da Hannah Arendt e Theodor Adorno, grazie agli stralci di testimonianze offerti da Benjamin. Proprio da tale repertorio riparte Fabrizio Ferraro ne Gli indesiderati d'Europa, che si propone di indagare riformulando il concetto di viaggio. In questo caso fuga, via d’uscita, che potrebbe aprire le porte ad un domani più roseo. Lontano da dittature, morti ed eterni conflitti. La storia si ripete e non lo fa attraverso i luoghi comuni, ma nei centri nevralgici del nuovo mondo globalizzato: quel che un tempo avveniva tra Francia, Germania e Spagna, oggi capita in Libia, Siria, Iran e così via. Le migrazioni sono sempre figlie della paura, che trae linfa dalla consapevolezza di non farcela. Di rimanere schiacciati dal peso coercitivo e dittatoriale dei più forti, coloro che ghettizzano e chiudono ogni frontiera in nome di uno Stato che non c’è pur sembrando così presente. Il regista con quest’opera vuole porre l’attenzione proprio su queste coscienze, prodotto del caos, che hanno come unica arma di difesa le loro aspettative da coltivare altrove e, quindi, trovano la forza di spingersi oltre. Fino ad una probabile morte che, però, affievolisce lungo la prospettiva della libertà. Gli indesiderati d'Europa si pone come monito – un’opera formativa che parte dal passato per insegnare al presente – senza troppa incisività. Quel che resta è un proposito nobile realizzato in maniera troppo approssimativa. Il regista rimane coinvolto in eterni piani sequenza (a volte persino superflui) che, invece di rendere il senso della fuga, finiscono col restituire esclusivamente la lentezza di un cammino che, siamo certi, a quei tempi, sarà stato sicuramente meno simile ad un viaggio e più vicino ad una traversata insperata. Cogliamo un’eccessiva autoreferenzialità, ma in quest’eterno ritorno non c’è spazio per nessun approfondimento: sia dal punto di vista visivo che da quello intellettuale. Un’occasione persa per un progetto partito sotto i migliori auspici e che culmina in un nulla di fatto. Il ritmo eccessivamente peripatetico sembra essere la spada di Damocle per questo film, quasi come se dovesse necessariamente affrontare determinati temi per compatire il pubblico più che coinvolgerlo. Siamo dinnanzi ad una pagina buia della storia internazionale che, sicuramente, andava affrontata in maniera differente. Cinematograficamente Gli indesiderati d'Europa risulta troppo asettico per le ambizioni di cui si fa carico. Eppure gli spunti storico-sociali ci sarebbero tutti.