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Lo sguardo nello specchio: breve incursione nel cinema di Richard Fleischer

25/07/2017 16:37

Luca Lombardini

Ritratto,

Il (cog)nome d’arte Fleischer è uno di quelli che, a torto, viene citato ormai di rado...

Il (cog)nome d’arte Fleischer è uno di quelli che, a torto, viene citato ormai di rado. Figlio del pioniere dell’ animazione americana, Richard appartiene a quella ristretta cerchia di registi capaci di traghettare il cinema statunitense dall’epoca d’oro dello studio system allo sperimentale decennio della new Hollywood. Cresciuto a pane e celluloide, Fleischer meriterebbe, nella storia della settima arte, consensi e considerazioni prossime a quelle conquistate negli anni dai colleghi del calibro di Don Siegel, Robert Aldrich.


Difficile, praticamente impossibile, non ritrovarne tracce artistico-produttive in quel lasso di tempo che va dai ’40 agli ’80: per una carriera degna di nota fin dagli esordi, marchiati a fuogo dal logo RKO. Una volta sotto contratto con la gloriosa casa di produzione di Bmovies, Fleischer si mette in mostra come regista innanzitutto tecnico. La palestra alle dipendenze del padre Max c’è e si vede: rapido nel girare, Fleischer si guadagna sul campo l’etichetta di cineasta estremamente fisico, dote che, una volta affinata nel solco stilistico che separa il noir dal poliziesco tout-court, verrà approfondita e riattualizzata negli anni ’70.


Modello e punto di riferimento del primo Fleischer è senza ombra di dubbio Orson Welles: Quarto Potere rimarrà negli anni una fedele fonte d’ispirazione (non solo per lui naturalmente, ma per un’intera generazione), al pari de La Signora di Shangai, che Fleischer reimposterà a sua immagine e poetica rielaborandone il caratteristico utilizzo della superficie riflessa, particolare presente e già riconoscibile fin dall’esordio “criminale” Squadra mobile 61. Decisamente a suo agio nel sistema, lontanissimo, almeno in apparenza, dal millantare propositi d’autore, Fleischer amava definirsi un movie maker, ovvero un cineasta che, per sentirsi tale, aveva bisogno di girare almeno un film all’anno. Un artigiano insomma, capace di misurarsi con ogni tipo di genere e i più disparati budget di partenza, praticamente la risposta muscolare ad un collega magari più raffinato, ma altrettanto “produttivo”, come Robert Wise.


Ritmo e movimento: il meglio della produzione fleischeriana è rintracciabile nella congiunzione che unisce questi due termini. Leva utilizzata per rivelare le potenzialità empatiche del racconto la macchina da presa, raramente statica e abbandonata ad angolature prevedibili, bensì sempre al servizio di una scena innervata di vitalità ed energia dal movimento, continuo ed instancabile, dei suoi interpreti. Premesso ciò, definirlo un regista psicologico, magari alla luce delle sue pellicole più famose, equivarrebbe a sbagliare totalmente bersaglio e cascare nel prevedibile tranello della rivalutazione a posteriori. Fin dai primi passi con la RKO, Fleischer lascia che l’obbiettivo si rifletta sulla superficie specchiata con il solo e unico obiettivo di moltiplicare la dinamica dei punti di vista. Non c’è interesse primario verso il simbolico risvolto interiore suggerito dall’immagine doppia, ma solo il desiderio di sperimentare altre strade visive che affascinino lo spettatore. Il “periodo criminale” viene utilizzato da Fleischer per affinare uno stile che, messo successivamente a disposizione delle grandi produzioni, riscuoterà crescenti gradimenti di pubblico.


Il decennio dei ’50 ne sottolinea la versatilità, mentre all’alba dei ’70 entra di diritto tra i precursori della New Hollywood con Lo Strangolatore di Boston, opera che, oltre a collaudare le infinite derive dello split screen, si pone nel mezzo della personale trilogia incentrata sui serial killer e la pena capitale avviata da Frenesia del Delitto (1959) e conclusa con L’Assassinio di Rillington Place n.10 (1971). Il cerchio si chiude tornando al punto di partenza: la personalità deviata, che sullo schermo non può fare altro se non frammentarsi, è soltanto un pretesto. A Fleischer interessa l’immagine e le modalità attraverso la quale riplasmarla, ciò che c’è dietro è materia d’analisi per i posteri. Il cinema non è un lettino di psicanalisi. Quello, semmai, è un posto che spetta alla critica.


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