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Le regole dell'attrazione

29/03/2009 11:00

Ivan Zulberti

Recensione Film,

Le regole dell'attrazione

Pensare di trarre un film da un romanzo complesso, strutturalmente assai frammentato e basato su frequenti monologhi, come quello di Bret Easton Ellis, sembrava

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Pensare di trarre un film da un romanzo complesso, strutturalmente assai frammentato e basato su frequenti monologhi, come quello di Bret Easton Ellis, sembrava un’impresa al limite dell’impossibile. Il progetto è stato preso in mano non certo da uno sprovveduto, bensì dal giovane e talentuoso Roger Avary (premio Oscar nel 1994 per la sceneggiatura di Pulp Fiction, e regista di Killing Zoe). Collega di Quentin Tarantino al videonoleggio dove entrambi lavoravano prima di tentare il grande passo, Avary eredita dall’amico il grande amore per il cinema in ogni sua forma, nonché una innegabile somiglianza in certe scelte stilistiche. Anche Avary infatti si diverte a manipolare e destrutturare la sequenza narrativa, sempre in modo estremamente personale e intriso di pungente ironia.


La messa in scena è impeccabile, grazie soprattutto ad attori perfettamente calati nei ruoli, e all’ottima caratterizzazione dei personaggi, con le dovute semplificazioni rispetto al romanzo originale. In particolare si rivela particolarmente azzeccata la scelta del protagonista: James Van Der Beek, protagonista della serie televisiva Dawson’s Creek, ex icona dei teenager. Il giovane attore si trova catapultato in un personaggio completamente diverso, anzi del tutto opposto a quello che lo aveva reso famoso: in questo caso interpreta infatti uno spacciatore donnaiolo e senza scrupoli, Sean Bateman (fratello minore di Patrick Bateman, il protagonista di quell’American Psycho tratto sempre dalla penna di Ellis). Un rovescio della medaglia ironico e beffardo, ma nel quale il giovane attore se la cava perfettamente, sfoderando un’interpretazione convincente soprattutto grazie ad uno sguardo obliquo in grado di bucare lo schermo, ricordando quello dell’indimenticabile Malcolm McDowell in Arancia Meccanica.


La storia è ambientata in un college americano, pretesto per marcare l’accento ironico rivolto palesemente all’intero filone del teenager movie, e mettere in campo tutti i cliché del genere – nello specifico il trittico alcool sesso e droga – mantenendo toni estremamente godibili. Il turpiloquio percorre quasi l’intera durata della pellicola, elemento che, se da un lato potrebbe disturbare la fruizione, in realtà non fa altro che rafforzare ancor più l’efficacia del film; proprio i dialoghi, infatti, pungenti e mai banali, si rivelano uno dei punti di forza.


Le invenzioni e le trovate registiche, a cominciare dalla sequenza d’apertura, girata con uno studiatissimo meccanismo di rewind – attraverso cui la stessa situazione è colta da tre punti di vista differenti – rendono non solo il film un autentico gioiello visivo, ma pone la regia di Avary come elemento imprescindibile della qualità complessiva dell’opera. Come pure l’utilizzo dello split screen, mai fine a se stesso, estremamente funzionale in due sequenze: il primo incontro fra Sean e Lauren (interpretata dalla splendida Shannyn Sossamon) in cui i due screens finiscono per raccordarsi; durante le fantasie sessuali di Paul (Ian Somerhalder), in cui il regista ricorre all’espediente per mostrarci contemporaneamente ciò che vorrebbe accadesse Paul, e ciò che accade veramente. Se a questo aggiungiamo altre trovate talvolta poetiche – il fiocco di neve che si tramuta in lacrima – o talvolta di irresistibile comicità – il balletto sulle note di Faith di George Michael – possiamo renderci conto di trovarci di fronte ad un film di caratura non indifferente. A questo aggiungiamo un montaggio coraggioso, ma sempre ben articolato, e una colonna sonora d’eccezione, che spazia dai Cure a Blondie, pur non essendo mai troppo invasiva. E se tutto ciò non bastasse… come dimenticare la scena del suicidio, tra le più toccanti e struggenti mai viste su schermo negli ultimi anni, sulle note della bellissima Without You di Harry Nilson.


Tirando le somme, una pellicola che indubbiamente lascia il segno, grazie ad un’ottima compagine di attori diretti da un vero talento della macchina da presa, che affronta temi difficili – i problemi della gioventù del giorno d’oggi, spesso troppo viziata, continuamente a metà strada fra vittima e carnefice – in un modo estremamente schietto ed originale, senza perbenismi né facili critiche morali. Avary ha classe. E questo film ne è l’ennesima dimostrazione.


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