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Disastro a Hollywood

16/04/2009 11:00

Giovanni D'Angelo

Recensione Film,

Disastro a Hollywood

Un lavoro da finire, un matrimonio da rifare, un altro già concluso e una schiera di figli da sfamare...

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Un lavoro da finire, un matrimonio da rifare, un altro già concluso e una schiera di figli da sfamare. Può sembrare la vita di un comune cittadino poco accorto, ma tale non è. La pellicola in questione ci trasporta nell’infernale vita di Ben (Robert De Niro), produttore cinematografico sull’orlo di una crisi di nervi (sempre e comunque contenuta), in lotta continua con impegni, responsabilità e scorciatoie per sopravvivere nella dorata giungla hollywoodiana.


Alla prese con un film già spacciato in fase post-produttiva, Ben si ritrova quotidianamente a mediare tra l’eclettismo del suo regista (Michael Wincott), istanza creativa riluttante alle regole del mercato, e una ferrea executive (Catherine Keener), che svolge minuziosamente il suo lavoro allo scopo di cambiare un finale troppo cruento e poco commerciale. Ma i capricci delle star non finiscono qui, perché la lotta continua con uno strambo quanto irascibile Bruce Willis, completamente sordo all’idea di radersi la barba per recitare nel prossimo film di Ben. E ancora, alimenti da pagare ad ex-mogli e figli, il rischio di finire in bancarotta e, cosa ancora più deleteria, di risultare ultimo nella classifica dei produttori più importanti di Hollywood.


Il film segna il ritorno della collaborazione tra Barry Levinson e Robert De Niro. Lontani dalla bestialità carceraria di Sleepers, attore e regista realizzano, con toni da commedia, un altro atto di denuncia nei confronti di un sistema produttivo che non manca di cattiveria e abuso di potere. Viene presentata una Hollywood già nota, fatta di squali “esecutivi” e major insensibili a qualsiasi integrità artistica, per favorire logiche di mercato che castrano la creatività. Nulla di veramente nuovo sul fronte narrativo, quindi, nessuna rivelazione in una storia che parla di meccanismi oramai conosciuti e vituperati in tante pellicole di natura meta-cinematografica. L’unico vero punto di forza è il cast stellare del film, che annovera nomi come Sean Penn, Robin Wright Penn, Stanley Tucci, John Turturro (nel ruolo di un irresistibile agente affetto da indicibili disturbi intestinali), una Catherine Keener brava come non mai e la neo-diva più ricercata da Hollywood Kristen Stewart (qui in chiave Lolita), che tutti ricorderanno come la promessa sposa del vampiro in Twilight.


La regia di Levinson, invece, si affida ad una narrazione classica priva di sperimentazioni, peccando di spicciolo giovanilismo negli inserti di accelerazioni visive fini a se stesse, con l’intento (forse e quindi banale) di voler raccontare il caos interno vissuto da Ben.


La storia è tratta dal libro autobiografico del produttore Art Linson (Gli intoccabili, Fight Club): un tour attraverso gli orrori della mecca del cinema che nonostante gli innumerevoli atti di denuncia di tante pellicole non mostra alcun cambiamento, stagnando nel circolo vizioso di un sentire industriale, lontano da quell’idea di fucina artistica che ogni opera d’arte (film compresi) dovrebbe rappresentare.


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