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Incontri ravvicinati del terzo tipo

21/08/2011 10:00

Marco D'Amato

Recensione Film,

Incontri ravvicinati del terzo tipo

Il film-manifesto della cinematografia spielberghiana, modello inarrivabile per la grande maggioranza degli alien-movies arrivati più tardi e punto di partenza

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Il film-manifesto della cinematografia spielberghiana, modello inarrivabile per la grande maggioranza degli alien-movies arrivati più tardi e punto di partenza per molti dei film successivi del regista americano. È questo film del 1977 a imporre nell’immaginario collettivo gli extraterresti come forme di vita superiori essenzialmente pacifiche e amichevoli, in contrasto con la grande maggioranza dei film prodotti fino a quel momento.


Strane luci colorate e dischi volanti solcano i cieli notturni di un’estate americana: la NASA localizza il punto di un possibile contatto con gli alieni nella zona della Torre del Diavolo, nel Wyoming, e prova a interdire la zona con la scusa di una fuga di gas. Ma frotte di cittadini sono inconsciamente attratti nella zona da una serie di richiami subliminali visivi e sonori di origine aliena. Tra questi l’elettricista Roy Neary (Richard Dreyfuss), per il quale questi messaggi sono diventati un’ossessione tale da mettere in crisi i suoi stessi legami familiari, e Jillian Guiler (Melinda Dillon), una madre alla quale gli extraterrestri hanno rapito il figlioletto Barry (Cary Guffey).


La grande forza del film risiede essenzialmente in due punti: la profonda carica emotiva che pervade tutta la durata della pellicola e l’indiscutibile potenza delle immagini che stupiscono ancora oggi a più di trent’anni di distanza. Coerentemente con quanto ha poi girato in seguito, Spielberg (qui unico responsabile anche di sceneggiatura e soggetto) tesse l’elogio dell’innocenza infantile: il piccolo Barry, il cui volto è diventato in breve tempo una vera e propria icona, non ha paura degli alieni, anzi ne è attratto. E anche il protagonista, Roy, è dotato di un carattere decisamente “bambinesco”, e a lui spetta l’onore di poter avvicinare gli extraterrestri. Numerose le immagini entrate nell’immaginario collettivo: dai colori psichedelici emessi dalle astronavi, alla misteriosa sagoma della Torre del Diavolo, una montagna sacra agli indiani dalla sagoma inconfondibile. Indimenticabile l’apparizione della gigantesca astronave-madre e il suo dialogo con i terrestri attraverso un linguaggio musicale basato su un motivetto che chiunque avrà fischiettato almeno una volta in vita sua. Gli alieni, avvolti in una luce fluorescente, appaiono solo nel finale del film, mostrando quei tratti da ominidi che verranno poi utilizzati da Carlo Rambaldi per creare il personaggio di E.T.


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