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To Rome with love

13/04/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

To Rome with love

Woody Allen dirige una commedia corale sui cliché e le ossessioni degli italiani a Roma

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C’è una battuta, pronunciata da Laurence Olivier nello splendido Spartacus di Kubrick che, negli anni, è diventata un vero e proprio cult: «Nessuno resiste a Roma». Di certo non vi ha resistito Woody Allen che dopo gli exploit europei di Londra, Barcellona e Parigi approda nella capitale italiana cercando di bissare il successo di critica e pubblico ottenuto con Midnight in Paris, dirigendo una commedia corale, dai toni scanzonati e ironici, giocando su cliché e ossessioni del popolo italico.


Hayley (Alison Pill) è una giovane turista americana che, durante un assolato pomeriggio romano, incontra Michelangelo (Flavio Parenti). Con lo splendido scenario romano a fare da cornice, i due si innamorano e decidono di sposarsi. I genitori di Hayley, Jerry (Woody Allen) e Phillys (Judy Davis) volano a Roma, per conoscere il futuro genero e i consuoceri. Giancarlo (il tenore Fabio Armiliato), il padre di Michelangelo, è un impresario di pompe funebri, con l’hobby della lirica che sfoga esclusivamente cantando sotto la doccia. Quando Jerry, agente lirico in pensione, ascolta il consuocero decide di prenderlo sotto la propria ala e di farlo diventare il nuovo Caruso, pur con tutte le complicazioni del caso. Nel frattempo il famoso architetto John (Alec Baldwin), durante una vacanza in città ricorda la sua giovinezza e, in uno dei suoi malinconici vagabondaggi, si imbatte in Jack (Jesse Eisenberg), giovane architetto fidanzato con Sally (Greta Gerwig) e la cui vita sta per essere sconvolta dall’arrivo di Monica (Ellen Page). Dall’altra parte della metropoli l’impiegato Leopoldo Pisanello (Roberto Benigni) si scopre improvvisamente famoso, e comincia ad essere perseguitato da paparazzi e giornalisti che commentano ogni suo passo e ogni sua scelta. Infine la coppia di sposini Antonio (Alessandro Tiberi) e Milly (Alessandra Mastronardi) arriva a Roma da Pordenone, con la speranza di costruirsi una nuova vita, grazie all’aiuto di altolocati parenti del ragazzo che possono inserirlo in un contesto lavorativo di successo. Poco prima dell’appuntamento, però, Milly si perde per le vie urbane, dove rimane incastrata tra le avance di un attore (Antonio Albanese) e quelle di un ladro (Riccardo Scamarcio). Antonio, al contrario, deve vedersela con le pressanti aspettative dei parenti, dopo essere stato colto in compagnia di Anna (Penelope Cruz), giunta nella sua stanza d’albergo per pura coincidenza.


Proprio come era già successo con la pellicola premio Oscar Midnight in Paris, Allen dirige un film in cui rimanda l’immagine sfocata e qualunquista di topoi che si rincorrono: dalla splendida voce di Modugno che apre e chiude il film, alla passeggiata lungo Via Veneto, fino al vigile coatto che conduce lo spettatore all’interno della narrazione. Le immagini rarefatte dei monumenti si susseguono perdendosi lungo le sfumature ocra della città eterna, perfettamente immortalate dall’ottima fotografia di Darius Khondji. Man mano che la storia procede, la macchina da presa, che nella prima parte insiste sull’effigie di una città quasi utopistica nella sua disarmante bellezza, si concentra sulle dinamiche tra i vari personaggi. To Rome with Love smette velocemente di essere un film su Roma, trasformandosi in una pellicola sui rapporti surreali che visioni - autoctone o meno - creano sullo sfondo romano. I turisti – Alec Baldwin, Jesse Eisenberg, Ellen Page – vengono accompagnati tutti da immagini quasi folcloristiche, dove la bellezza della città rispecchia l’immaginario collettivo di un mondo che lascia le sue tracce di marmo e mattoni a giacere sull’erba e lungo le strade. Gli italiani – Benigni, Armiliato – al contrario, si muovono lungo confini meno incisivi, regalando un’altra immagine della città: di routine, abitudinaria, quasi anonima per quanto possa esserlo la capitale.


Quel che però smorza l’entusiasmo della fruizione è la mancata coerenza tra i vari episodi che compongono la pellicola, alternati non solo per discordanze cronologiche, ma anche ritmiche. Alcune scene funzionano molto meglio di altre. L’episodio che lega Woody Allen al tenore Armiliato è sicuramente il più riuscito: ironia e giochi di parole la fanno da padrone, restituendo situazioni durante le quali è impossibile non ridere di gusto. A fare da contraltare c’è l’episodio della Mastronardi, di sicuro la meno ispirata. Il suo personaggio è troppo sopra le righe, troppo isterico e squillante non solo per essere credibile, ma soprattutto affascinante. Nel mezzo, l’episodio che vede Alec Baldwin trasformarsi da anonimo turista benestante a spirito guida del giovane Eisenberg. Questa alternanza di ritmo e coerenza si rispecchia anche in strategie registiche e tecniche confuse, dal momento che non tutti gli episodi sono girati in presa diretta. È come se Woody Allen avesse avuto così tanto da raccontare e così tanta voglia di farlo da non essersi reso conto di aver accelerato troppo, tanto da rendere alcuni personaggi semplici macchie di colore che sfrecciano lungo i bordi del campo visivo.


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