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Il richiamo

08/05/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Il richiamo

Dopo essere stato selezionato in alcune importanti vetrine internazionali (come Toronto e Nantes), arriva anche nelle sale italiane Il richiamo di Stefano Paset

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Dopo essere stato selezionato in alcune importanti vetrine internazionali (come Toronto e Nantes), arriva anche nelle sale italiane Il richiamo di Stefano Pasetto, regista al suo secondo lungometraggio dopo Tartarughe sul dorso - presentato al festival di Venezia nel 2005 - e una lunga esperienza in campo documentaristico. Scritto a quattro mani dallo stesso regista e da Veronica Cascelli, il film tenta un ritratto della forza femminile, capace di combattere contro tutte le avversità.


Lea (Francesca Inaudi) è una giovane insoddisfatta, che vive divisa tra la sua relazione con Marco (Guillermo Pfening) e le telefonate di un padre sempre fuori dal quadro familiare. Lucia (Sandra Ceccarelli) è una hostess alle prese con un matrimonio freddo e minato dai continui aborti. Come se non bastasse, suo marito Bruno (César Bordòn) è sempre più distante, mentre un male oscuro comincia ad aleggiare sulla testa di Lucia. I destini di queste due donne, dopo aver viaggiato su binari paralleli per anni, a Buenos Aires, finiranno per incrociarsi indissolubilmente quando Lea deciderà di prendere lezioni di piano.


«Non sei confusa?», chiede una quasi afona Ceccarelli a Francesca Inaudi, sullo sfondo della Patagonia, dove natura e civiltà vanno di pari passo. La stessa domanda si potrebbe fare al regista della pellicola. Nelle intenzioni, Pasetto tenta di descrivere l’arco di trasformazione di un universo quasi completamente al femminile, soffermandosi sui corpi sfatti delle donne – le cicatrici di Lea, la malattia e gli aborti di Lucia -, lasciando gli uomini (fidanzati, mariti, padri) al limite dello schermo, sfocati in un mondo che li vuole solo elementi di tappezzeria. Purtroppo Pasetto non tiene il passo di tutti gli elementi che vorrebbe mettere in gioco, lasciandosi sopraffare da un tono esageratamente melodrammatico, che finisce con l’essere involontariamente caricaturale. Tuttavia l’anello debole della diegesi si deve ricercare maggiormente nella sceneggiatura lacunosa e affrettata, che non solo non riesce ad approfondire la vita e la storia delle due protagoniste, ma si contenta di mettere qua e là spunti potenzialmente interessanti abbandonati a se stessi, risucchiati dalla spirale dell’oblio, senza che ad essi siano date motivazioni o spiegazioni anche lontanamente razionali. A partire dalla cicatrice sulla mano di Lea, fino ai flashback che irrompono nella mente di Lucia togliendole il sonno, allo spettatore non è permesso conoscerne la provenienza. La fruizione diventa allora caotica e insofferente, lenta e ridondante. Delle intenzioni del regista restano flebili segnali, poco aiutato purtroppo dalle interpretazioni delle protagoniste. Francesca Inaudi porta sul grande schermo – per l’ennesima volta – il ritratto di una donna eccentrica, dai modi eccessivi (e altamente disturbanti); di quello che ha alle spalle e che, si presume, l’abbia fatta diventare quello che è non rimane traccia che non sia lo reiterato squillo di un cellulare. A farle da spalla c’è una Sandra Ceccarelli nel ruolo di una borghese inacidita dalla vita, che tenta un ultimo disperato tentativo di emanciparsi. Il film di Pasetto svolge lo stesso ruolo di quello del richiamo delle omeriche sirene: è in realtà un inganno perpetuato ai danni dello spettatore che, suo malgrado, si trova immerso in una diegesi povera dal punto di vista emotivo, che spazientisce laddove dovrebbe commuovere, incapace com’è di trattare temi forti quali la malattia e la sessualità.


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