Hans Christian Andersen è stato indubbiamente una delle personalità più controverse nel panorama letterario mondiale. Cresciuto senza l’amore del padre, allevato da una madre assente ed egoista, deriso per il suo fisico disarmonico e per la sua voce stridula, Hans non ha conosciuto pietà né compassione. Gli affetti che avrebbe voluto ricevere, le passioni che avrebbe voluto vivere, i baci che avrebbe voluto dare sono diventati il soggetto delle sue fiabe e i desideri dei loro protagonisti. Eldar Rjazanov, importante regista sovietico, realizza una sorta di biopic moderno, per raccontare la storia dello scrittore danese e cercare di spiegare come sono nate alcune tra le più belle favole mai scritte. Odense, 1805. Il piccolo Hans Christian Andersen, figlio di una povera donna e di un “soldato di passaggio”, è un bambino estremamente intelligente ma inevitabilmente solo. Dio in persona scende dal cielo per baciarlo e predirgli una vita fortunata. Le circostanze reali, però, dimostrano il contrario e il bambino non riceve né l’affetto della madre né quello dell’anziana nonna con cui condivide il letto. Schernito dai coetanei per colpa di un corpo sgraziato e di una voce eccessivamente acuta, Hans comincia a stringere amicizie immaginarie e a sviluppare variegati talenti artistici: canto, ballo, scrittura e recitazione. Nel frattempo, diviene un uomo innamorato ma, sempre, disilluso. La sua frustrazione personale e relazionale viene riversata in impetuose parole appuntate su uno sgangherato taccuino destinato a diventare, nelle mani della dolce Henrietta, fonte della sua fortuna. Gradito dalla borghesia, Hans si dimentica presto, o quanto meno finge di farlo, delle sue umili origini, delle difficoltà economiche della sua famiglia e dell’amore che Henrietta nutre per lui, concentrandosi esclusivamente sulla sua nuova, frivola e volubile vita. Era difficile narrare una biografia tanto complessa come quella di Andersen. Non volendosi limitare a raccontare i momenti salienti della vita dello scrittore attraverso immagini, Eldar Rjazanov decide di inserire nella storia sequenze oniriche e svariati flashback che puntino l’attenzione su opere, incontri e sogni dell’artista. Così facendo però, ne rallenta il ritmo della narrazione trasformandone gli spunti interessanti in ridondanti ornamenti barocchi. Colori sgargianti, battute volgari e prostitute senza veli hanno reso la pellicola poco adatta ad un pubblico infantile cui, invece, sarebbe dovuta essere rivolta. Il senso di abbandono e di insoddisfazione che non ha mai abbandonato Hans, ad esempio, avrebbe potuto spiegare la nascita di storie come Il brutto anatroccolo, spronando così gli spettatori, grandi e piccoli, a sentirsi parte integrante di un universo multiforme. Un’occasione sprecata, quella del regista sovietico, troppo legato ad uno stile antiquato e fuori moda. Con le scenografie accuratamente ricostruite in interni e la fotografia di Yevgeni Guslinsky, che riporta alla mente i dipinti di Fattori, Una vita senza amore non tarda a costituirsi come pellicola ben congegnata ma, purtroppo, non altrettanto ben strutturata.