Creare un videogioco e realizzare un film sono due cose molto diverse, che implicano competenze, modalità di fruizione, approcci differenti. Ad oggi sono pochi i film che hanno saputo essere buone trasposizioni di videogiochi, sono più i videogiochi riveelatisi in grado di trasporre i film da cui derivano, delineando un rapporto fra media potenzialmente esplosivo, ma che non ha ancora trovato una formula universale per non esplodere in mano ai realizzatori. La serie di Resident Evil è un brand in cerca della propria identità: distaccatasi fin dall’inizio dal videogioco, la versione cinematografica ha puntato tutto sul personaggio di Alice (Milla Jovovich), creata ad hoc per diventare protagonista di una narrazione sci-fi/action/horror i cui riferimenti al gioco sono concreti solo nel secondo capitolo. Sul grande schermo la serie è giunta oggi al quinto episodio, tornando nelle mani di Paul W.S. Anderson, che ne aveva diretto il primo e il quarto adattamento.
Lo sviluppo della vicenda vede un mondo alla mercé di un esercito di non morti e mutanti, sviluppati dalla Umbrella Corporation a partire dal “T Virus” ed evidentemente sfuggiti al controllo della società. Per l’umanità, giunta sull’orlo del baratro, sono poche le speranze di sopravvivenza, affidate in buona parte ad Alice e al suo DNA in grado di incorporare il virus mutogeno in modo non degenerativo. Il problema principale per la razza umana è allora recuperare la ragazza, finita in mano dell’Umbrella. Per salvarsi, Alice potrà contare su alcuni compagni di sventura: Leon Kennedy (Johann Urb) , Ada Wong (Li Bingbing), Barry Burton (Kevin Durand), Jill Valentine (Sienna Guillory) e persino Albert Wesker (Shawn Roberts) - nemesi dei protagonisti nel gioco come nei film. La missione di salvataggio si trasformerà presto in una carneficina, con mostri di varia natura - ripresi da diversi episodi della serie - pronti a farsi macellare dai protagonisti, non senza tentativi di attacchi brutali.
La sceneggiatura è il punto più debole di un film che non presenta punti forti eccetto l’avvenenza delle attrici coinvolte. Dialoghi e battute prevedibili, scontri a fuoco all’arma bianca, a mani nude, che si avvalgono di coreografie ben realizzate ma eccessive (memorabile il riferimento all’ultimo Mortal Kombat per i colpi portati dalla soldatessa mutante interpretata da Michelle Rodriguez). Il tentativo di inserire una qualche pseudo-riflessione social-filosofica, affidata all’analisi dell’operato Umbrella e ai pretestuosi concetti di clonazione e standardizzazione, di cui in fondo gli stessi zombie sono i prodotti, è talmente risibile da non meritare approfondimento. Idem sul piano tecnico per quanto riguarda l’uso del 3D, che non apporta valori aggiunti di sorta alla visione, ma quanto meno non disturba. Le esagerazioni e le incongruenze che in un videogioco possono essere accettabili (e lo sono sempre meno in quei titoli che conferiscono all’aspetto narrativo e simulativo ruoli determinanti) non possono trovare accoglienza in un film che cade ripetutamente nell’eccesso, non si cura di costruire una storia verosimile e inserisce riferimenti alla matrice videoludica, come le schermate della mappa del percorso e la costruzione a “livelli” della struttura che ospita i laboratori Umbrella, che pur essendo in sé attinenti, non hanno alcun valore specifico.