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Disconnect

24/10/2012 10:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Disconnect

Dalla sua creazione il world wide web ha rappresentato una sfida continua per incenerire le distanze geografiche e dare al mondo intero la possibilità di inform

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Dalla sua creazione il world wide web ha rappresentato una sfida continua per incenerire le distanze geografiche e dare al mondo intero la possibilità di informarsi, comunicare e interagire in maniera alquanto democratica. Ad oggi la rete, nella sua globalità, oltre ad essere una fonte inesauribile di informazione è diventata anche una possibile trappola, una rete tentacolare dove la libertà di espressione spesso di trasforma in attacchi verbali che rimbalzano nell’etere arrivando in alcuni casi a creare il cosiddetto effetto butterfly. Ed è proprio sulle insidie di internet e dei suoi mezzi che si interroga il regista Alex Henry Rubin con il suo Disconnect, pellicola presentata fuori concorso alla 69° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel cast il neodivo svedese Alexander Skarsgard (l’Eric di True Blood), Frank Grillo (The Gates) e Jason Bateman (Juno, Hancock).


Un ex poliziotto rimasto vedovo (Frank Grillo) decide di restituire il distintivo e reinventarsi come investigatore privato per stare più tempo con il figlio Jason (Colin Ford), un bulletto imberbe che, complice il migliore amico e un profilo falso su facebook, comincia a tartassare un coetaneo più introverso (Ben Boyd), facendogli credere di essere una ragazzina innamorata. Un avvocato rampante (Jason Bateman) è così immerso nel proprio lavoro da non accorgersi che in suo figlio c’è qualcosa che non va. Una madre reduce dal lutto di aver perso il proprio bambino (Paula Patton) cerca conforto nell’amicizia virtuale con uno sconosciuto (Michael Nyqvist), mentre suo marito (Alexander Skarsgard) si sfoga con i giochi d’azzardo online. Infine una giornalista (Andrea Riseborough) crea un’inchiesta su un giovane che si vende in rete per qualche soldo e qualche dono (Max Thieriot).


Quasi un consiglio, quello che Rubin rivolge agli spettatori. Disconnect, ossia "disconnettiti": in un’epoca in cui frodi virali sono all’ordine del giorno, staccare la spina sembrerebbe la cosa più saggia di fare. Lasciar naufragare la rete con le sue bellezze e le sue insidie, con la sua visibilità e la sua correzione e ricreare un’umanità di carne ed ossa, non di byte e pixel. I personaggi rappresentati da Rubin sono tutti alle prese con le conseguenze di una troppo marcata dipendenza tecnologica; costruiscono se stessi come automi meccanizzati, in cui gli strumenti di interazione tecnologica diventano quasi delle protesi fondamentali all’esistenza. Il cellulare di Bateman, l’I-Pad dei bulli, il computer in cui ci si svende e nel quale si investono speranze - sempre poi inevitabilmente disilluse. Un mondo pieno di falsità e illusioni, quello che Rubin mette in scena, in una New York di periferia arida e sterile, dove persino i raggi del sole faticano ad entrare. Un mondo dove la possibilità di essere virtualmente vicini si traduce nella quasi impossibilità del vero contatto umano. Candidato all’Oscar per il documentario Murderball, il regista abbandona sin da subito manierismi e si concentra sulla nuda rappresentazione di un disagio quasi inconscio. Aiutato dalla sceneggiatura di Andrew Stern, capace di creare non solo buoni livelli di tensione, ma anche intrecci narrativi che strizzano l’occhio a Crash di Paul Haggis e a 21 Grammi di Inarritu, Rubin realizza un film sulle problematiche legate alla connessione interattiva, senza però mai dimenticare il lato più umano della vicenda, scendendo con sagacia nell’interiorità di quei personaggi che, grazie alle ottime prove fornite dal cast, finiscono per diventare così reali da spaventare chiunque sia seduto in poltrona, magari con uno smartphone nella borsa.


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