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Parkland

03/09/2013 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Parkland

Sono ben cinquanta gli anni trascorsi dall’assassinio del Presidente Kennedy e dedicare a questo evento un lungometraggio e presentarlo al Festival di Venezia 2

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Sono ben cinquanta gli anni trascorsi dall’assassinio del Presidente Kennedy e dedicare a questo evento un lungometraggio e presentarlo al Festival di Venezia 2013 sembra essere una scelta tutto sommato comprensibile. Parkland segna l’esordio dietro la macchina da presa del regista Peter Landesman che si serve della sceneggiatura tratta dal libro di Vincenzo Bugliosi Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy e riepiloga gli avvenimenti che hanno caratterizzato le frenetiche ore susseguenti lo sparo, passando per la corsa in ospedale e il decesso del Presidente, per poi allargarsi a macchia d’olio verso gli altri personaggi coinvolti nella vicenda.


Parkland è il nome dell’ospedale di Dallas location principale del film, all’interno del quale tutto ha origine. Interessante sembra essere infatti la scelta del regista, quella di definire un nucleo duro (la morte di Kennedy in clinica, appunto) per poi sviluppare attorno a questo una serie di cerchi concentrici, che contengono altre storie, marginali, ma in qualche modo collegate all’evento tristemente passato alla storia. Zelanti agenti dei servizi segreti e forze dell’ordine, il personale dell’ospedale, il medico che ha tentato invano di rianimarlo, diventano protagonisti di sottopiste narrative. Tra queste mini-storie forse il personaggio più lontano alla vicenda - ma sorprendentemente il più emotivamente segnato – è Abraham Zapruder (Paul Giamatti), che attraverso la sua cinepresa 8mm riprende per un caso fortuito l’assassinio.


La scelta stilistica all’inizio del film è stata quella di realizzare una commistione tra immagini di repertorio e girato, effetti scenici per condurre lo spettatore a vivere quel caos e quel fragore che si sono scatenati al momento dell’attentato. Con successo: guardando le scene si è letteralmente rapiti dalle vicende e appare chiaro l’intento della regia di spiazzare con un film corale, il cui tema principale è rappresentare un’umanità segnata dalla storia, ma ugualmente ignorata o dimenticata da tabloid e media in generale. Landesman non tenta nemmeno, e forse sa il fatto suo, di avvicinarsi a film storici che hanno trattato l’argomento. Sceglie così di bypassare ogni forma di accostamento o semplice paragone utilizzando in maniera strumentale il tempo (viene usato il presente, come se gli eventi fossero ripresi in presa diretta) ed esplorando la vita di questi personaggi in cerca di autore. Tra i più interessanti, Lee Harvey Oswald (Jeremy Strong): raccontato sia in qualità di carnefice sia in qualità di vittima (l'omicida che venne poi brutalmente ucciso da uno sparo ripreso in diretta tv) sia nella sua quotidianità, portando in scena anche la sua famiglia (il fratello Robert - James Badge Dale) e la madre (Jacki Weaver). Il film però non convince per via di una messa in scena così simile a una serie per la tv, per quegli eccessi nazionalistici, per quei discorsi così fortemente incentrati su valori americani così poco estendibili e al di fuori del nuovo continente. La cannibalizzazione della storia, lacerata e fatta a brandelli nel tentativo di renderla più originale in realtà aiuta sì a coinvolgere lo spettatore, ma apparendo infine abbastanza inconsistente, forse per quella frenesia che sembra avere il regista nel portare in scena queste storie e poi lasciarle in balia di se stesse.


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