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L'ultimo imperatore

05/10/2013 11:00

Martina Calcabrini

Recensione Film,

L'ultimo imperatore

Ci sono pellicole di una bellezza così ammaliante che non appassisce nemmeno dopo decenni...

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Ci sono pellicole di una bellezza così ammaliante che non appassisce nemmeno dopo decenni. È questo il caso de L'ultimo imperatore, intenso adattamento cinematografico dell'autobiografia di Henry Pu-Yi, realizzato nel 1987 da Bernardo Bertolucci (Ultimo tango a Parigi). In occasione del restauro della pellicola girata in 35 mm, Videa CDE Distribuzione l'ha riportata nuovamente al cinema, riconvertita in un travolgente 3D capace di conferire nitidezza e luminosità alla fotografia originale di Vittorio Storaro (L'uccello dalle piume di cristallo).


Pechino, 1908. L'anziana Imperatrice Vedova, prossima alla morte, sceglie il piccolo Pu-Yi (John Lone) come suo successore. Ultimo della dinastia Ching, il bambino passa tutta la giovinezza tra le mura del suo palazzo nel centro della Città Proibita, circondato soltanto da eunuchi. Quando Sun-Yat-Sen proclama la Repubblica, il ragazzo rimane imprigionato nelle mura della sua dimora come simbolo di un antico potere destinato a non eclissarsi. Crescendo, Pu-Yi sposa due donne e si trasferisce in Occidente, scendendo a compromessi con i Giapponesi che, nel frattempo, hanno occupato la Manciuria, suo paese natio. Torna a sedersi sul trono come imperatore-fantoccio e, alla fine della seconda guerra mondiale, viene catturato da Mao e detenuto come criminale di guerra. Dopo dieci anni di detenzione, Pu-Yi viene rimesso in libertà e, durante gli esiti della rivoluzione culturale, muore.


Lente panoramiche laterali accompagnano la crescita di un bambino i cui occhi, curiosi e bramosi di verità, esplorano il paesaggio, lo indagano e lo analizzano in ogni suo particolare. Gli anni passano velocemente e quel bambino è diventato ormai un uomo stanco e annoiato poichè conosce ogni angolo di quel piccolo, claustrofobico, mondo. La macchina da presa è rigida e impostata poichè, sposando il punto di vista del suo protagonista, non è libera di vagare con il pensiero, di esprimersi o di agire. L'ambiente è caldo, luminoso e accogliente ma, in realtà, il suo sfarzo serve soltanto a nascondere l'esistenza solitaria di un uomo prigioniero della sua cultura, della sua società e della sua stessa casa. Rituali noiosi e ripetitivi ne popolano le giornate, ne dettano i ritmi, ne modificano il corso e ne canalizzano i desideri. Con il passare del tempo, Pu-Yi riesce a fuggire dalla Città Proibita ma non dagli obblighi che ne ha ereditato. Trasformato in imperatore-fantoccio dal governo nipponico, è costretto ad eseguirne gli ordini, a condividerne la politica e ad assumersene le colpe. Riprendendo il suo posto sul trono di Manciuria, viene spodestato da Mao e costretto a lavorare per dieci anni come umile giardiniere nell'orto botanico della prigione. La macchina da presa continua a seguirlo stancamente, a condividerne il punto di vista e a sentirsi oppressa da un mondo esterno di cui ignorava la crudeltà. Quando la società subisce una vigorosa riforma culturale, però, Pu-Yi, ormai libero, si abbandona al suo destino. Il regista, allora, se ne allontana e gli volta le spalle in modo mesto, malinconico e rassegnato per concedergli, finalmente, la libertà di morire. L'ultimo imperatore si rivela il ritratto di un uomo comune, indagato nei suoi vizi e nelle sue virtù ma colpevole di essere l'unica nota stonata in una composizione, a suo modo, melodica.


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