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2 giorni a New York

16/01/2014 12:00

Erika Pomella

Recensione Film,

2 giorni a New York

A distanza di sei anni da 2 Giorni a Parigi, Julie Delpy torna a puntare l'occhio della sua macchina da presa sulla fotografa Marion e i suoi problemi sentiment

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A distanza di sei anni da 2 Giorni a Parigi, Julie Delpy torna a puntare l'occhio della sua macchina da presa sulla fotografa Marion e i suoi problemi sentimentali. All'epoca l'avevamo lasciata di ritorno a New York con il compagno Jack (Adam Goldberg), dopo due giorni a Parigi dove erano emerse tutte le problematiche di una relazione tra due persone che, almeno su carta, non avrebbero potuto dimostrarsi più differenti. Julie Delpy firma regia e sceneggiatura del sequel 2 Giorni a New York e torna a vestire i panni di Marion, stavolta alle prese con il nuovo compagno Mingus (Chris Rock) e la famiglia parigina in arrivo negli Stati Uniti per due giorni che sembrano promettere i proverbiali fuochi d'artificio.


Commedia gradevole che non si preoccupa di celare un sottotesto dalle venature malinconiche, 2 giorni a New York si apre con un "once upon a time" recitato davanti agli occhi invisibili di un altrettanto invisibile spettatore. Il pubblico si trova subito gettato in pasto alla vicenda, dove burattini e puppets raccontano, in breve, la storia di Marion, di modo che anche chi non avesse visto 2 giorni a Parigi possa facilmente seguire la narrazione di un film fondamentalmente lineare, privo di grandi ingarbugliamenti di sceneggiatura. Perché al di là delle battute e delle gag che vengono a crearsi quando un francese si imbatte nella roboante natura a stelle e strisce, 2 giorni a New York - proprio come il film che lo precede - si focalizza soprattutto sui rapporti umani, sull'intrecciarsi di situazioni ed esistenze, con scambi di opinione e le ormai consuete prese di coscienza.


Marion torna quindi sul grande schermo con tutte le sue insicurezze e le sue manie, con un serpeggiante senso di malinconia che a volte adombra il suo modo di pensare. Quello che conta non è tanto vivere per sempre felici e contenti: l'happy ending è qualcosa a cui tendere, ma è al tempo stesso un desiderio di effimero, che dura il tempo di un battito di ciglia. Pur non brillando di originalità, 2 giorni a New York riesce a far centro non tanto - o comunque non solo - per i toni tragicomici messi in scena, ma soprattutto per l'utilizzo consapevole della macchina da presa. La regista e interprete riesce a costruire un universo visivo piuttosto moderno e accattivante, che cattura l'attenzione dello spettatore e lo intrattiene, nel senso più alto del termine. Non si tratta semplicemente di una giustapposizione di immagini ben fotografate montate le une accanto alle altre: dietro un'inquadratura o uno stile di montaggio si nasconde un mondo dal ritmo serrato, quasi pop, che, a ben guardare, si sposa alla perfezione con il carattere di Marion, vero e proprio motore trainante della storia.


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