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Io sto con la sposa

17/10/2014 11:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Io sto con la sposa

Un film che ha mosso le coscienze e che ha saputo trovare il linguaggio giusto per parlare al pubblico più disparato

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Girato lungo l’Europa, concepito per la gente e finanziato dal basso, Io sto con la sposa è il risultato di un’imponente campagna di crowdfunding nata sul web: quasi centomila euro raccolti e duemilaseicento founders provenienti da trentotto paesi in tutto il mondo. Un film che ha mosso le coscienze e che ha saputo trovare il linguaggio giusto per parlare al pubblico più disparato, che da internet è diventato quello del Festival del Cinema di Venezia.


Un poeta siriano, un regista e un giornalista italiano incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa, in fuga dalla guerra e desiderosi di raggiungere la Svezia. Decidono di aiutarli a compiere il loro viaggio clandestino inscenando un finto matrimonio: trovata la sposa, gli invitati e messa in piedi una festa nuziale, il corteo attraverserà l’Europa alla volta di Malmö.


Il progetto Io sto con la sposa è un’ambizione umanitaria contaminata da molte idee e numerosi generi. L’utopia di un’Europa libera dai vincoli anticlandestinità, la gabbia dorata in cui il vecchio continente chiude le sue frontiere e i suoi occhi alla fuga di migliaia di esseri umani dalla guerra e verso la vita; il racconto - ricostruito in presa diretta - di un viaggio di tremila chilometri dall’Italia alla Svezia che mantiene in seno la drammaticità di una fuga avventurosa; l’intuizione democratica che sia il pubblico a finanziare il film che vuole vedere in sala. Collante di questi coraggiosi spunti diviene un genere ibrido che, dall’inchiesta alla narrativa di viaggio, viene adattato alla Settima Arte dando vita a un documentario che in realtà di cinematografico ha ben poco. Senza nulla togliere al corposo soggetto del film di Gabriele Del Grande (giornalista), Khaled Soliman Al Nassiry (poeta) e Antonio Augugliaro (regista) – il cui valore umano non solo è palese ma anche oggetto di dissertazione più universale che artistica – l’idea di un finto corteo, che mascheri i profughi in fuga nell’evasione da una terra assediata, è tutt’altro che nuova. Nel 2013 Argo di Ben Affleck vinceva il Premio Oscar per la vera storia del Canadian Caper - la più incredibile operazione di espatrio statunitense di tutti i tempi - messo in atto alla fine degli anni Settanta per ricondurre a casa alcuni cittadini americani rimasti intrappolati in Iran, camuffandoli da troupe cinematografica di un finto film di fantascienza. È vero, quella era solo fiction, mentre Io sto con la sposa è il reportage di un viaggio clandestino e pericoloso che tuttavia, rispetto a una più convinta opera cinematografica, presenta tutti i difetti della documentaristica ibrida. Nonostante la forma originale e qualche invenzione mediterranea alla Emir Kusturica, nel film c’è retorica, personaggi stereotipati e lentezze solo in parte compensate da una scrittura curata. Il modello dell’on the road è tradito dalla verbosità eccessiva dei personaggi, dal loro soffermarsi didascalicamente davanti a una macchina da presa indecisa che, per quanto desiderosa di ribellione, finisce per tracciare un film cinematograficamente più ordinario di quanto sperato.


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