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Adieu au langage - Addio al linguaggio

16/12/2014 12:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Adieu au langage - Addio al linguaggio

“La realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione”...

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“La realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione”. E così chi non ha immaginazione, può scontrarsi con l’ultimo lavoro di Jean-Luc Godard. Scontrarsi, perché la macchina da presa investe lo spettatore e i vetri si infrangono in mille pezzi fino alla rottura. La vista oltre il parabrezza è frammentata come il suo linguaggio cinematografico. Godard, l’uomo che divide. Adieu au Language, presentato in anteprima al Festival di Cannes 67, ha profondamente spaccato la critica. Un'opera che tratta il rapporto tra immagine e linguaggio e reitera in maniera marcata una visione del cinema come scissione e contrapposizione, che troppo spesso è sacrificata – a giudizio del regista – dall’inflazionato uso della narrazione.


Protagonisti del film sono una coppia e un cane, ma anche la Natura e la Politica; il Nuovo (difficile da capire) e la Storia, che si racconta attraverso metamorfosi di forme e piogge catartiche di metafore. Nel mezzo, voci fuori campo sentenziano di filosofia e massimi sistemi. Il tema – già affrontato nella filmografia del regista – trova in questo lavoro una potenza maggiore: l’immagine si spoglia della sua forza quando sceglie di unirsi indissolubilmente alla parola. La vera libertà, urla il film, è continuare a vivere separati ed estranei. Provocatoria tanto quanto disperata, la pellicola è un lungo e malinconico commiato dal linguaggio, perché non ne abbiamo bisogno per capire davvero cosa l’immagine voglia rappresentare e perchè non serve una guida che indichi dove volgere lo sguardo. Adieu au langage ha una struttura liturgica: diviso in due capitoli - la natura e la metafora - che si ripetono, ancora due volte, da buone coppie in antitesi. Il film destruttura, spezza, distrugge. L’immagine viene violentata, distorta, stesa in un campo lunghissimo (ma allo stesso tempo finito) e inequivocabilmente rinchiuso in sé: il saluto al linguaggio non è impossibilità dell’uomo di comunicare ma bisogno di uscire dagli schemi, data la loro assoluta incapacità di cogliere la moltitudine di senso. Adieu au langage è pura sperimentazione cinematografica: attraverso la stereoscopia si penetra in una nuova realtà la cui chiave d’accesso è la visione. Il regista crea una dimensione allucinogena, sovrapponendo 2D e 3D e deformando lo scorrere delle immagini fino a che significato e significante non si fondono in un solo segno, restando unità distinte ma vicine. Campo e controcampo, così alterati, costringono l’occhio dello spettatore a fare uno sforzo per “vedere”.


Addio al linguaggio come atto maieutico che ha con sè tutte le imperfezioni del passato, i limiti che devono essere superati, gli spazi e i modi da accettare e capire. Quello di Godard è un mondo che strizza l’occhio a Alain Badiou (“Lo zero e l’infinito sono le più grandi invenzioni della storia”), che attrae gli opposti e le contraddizioni, tendendo spasmodicamente all’infinito divenire. Non conosce generi, non si imbriglia nelle forme: accosta e supera la dicotomia natura-metafora fondendole in una sintesi cianotica e rivoluzionaria. Accanto al geniale uso del 3D, il film – come un flusso di coscienza delle idiosincrasie registiche (namedropping, tabù, pontificazioni) – è intervallato da un aggraziato fare citazionista. Un viaggio psichedelico che, per mezzo di allucinogeni come simboli, luci, colori, costringe l’occhio destro a chiudersi, poi il sinistro; necessita di togliere una lente, poi di metterla ancora. In questa vivisezione del reale vengono fuori tutti quegli elementi che permettono di cogliere, davvero, il senso che ci circonda. Il regista scrive una lettera d’amore disperata al linguaggio, ormai bistrattato dalla cinematografia. E lo fa lasciandoci un monito: tutto è già finito, per questo nulla finisce più. Cos’è davvero nuovo? Mesdames et Messieurs: Jean-Luc Godard.


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