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Salvatore Giuliano

18/02/2015 12:00

Giulia Colella

Recensione Film,

Salvatore Giuliano

Castelvetrano, Sicilia, luglio 1950...

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Castelvetrano, Sicilia, luglio 1950. Viene trovato il corpo senza vita del bandito Salvatore Giuliano. Nessuno sa o ha visto niente. L’unica cosa certa è che uno dei più feroci detrattori dello Stato e del popolo italiano, nonché l’autore dell’orrenda strage di Portella della Ginestra del 1947, è morto e che qualcuno l’ha ammazzato a sangue freddo. La verità giace a terra con la faccia affondata nella polvere, dove nessuno può andarla a scovare. Da quel momento sono solo frammenti di racconto minuscoli, parziali, disordinati che Francesco Rosi osserva con una macchina da presa che diventa quasi un microscopio sociale. Attraverso i continui salti temporali e i relativi flashback che intramezzano la vicenda non viene mai permesso allo spettatore di farsi un’idea chiara e di formulare un giudizio univoco o un’ipotesi razionalmente strutturata sulle questioni proposte. Veniamo semplicemente tenuti troppo vicini per mettere a fuoco.


Proprio questa scelta rende Salvatore Giuliano il film probabilmente più rappresentativo della carriera di Francesco Rosi. Non arriva per primo a raccontare la storia del bandito siciliano perché, aldilà delle numerosissime inchieste giornalistiche in merito, c’era già stato nel 1949 un timidissimo (e francamente mal riuscito) tentativo del regista Aldo Vergano di portare sul grande schermo il difficile tema del brigatismo separatista attraverso il dimenticato film I fuorilegge. Poi arriveranno anche l’imbarazzante versione di Michael Cimino dal titolo Il siciliano (1986) e il complottistico j’accuse di Paolo Benvenuti (Segreti di Stato, 2003). Ciò che comunque rende insuperato e forse persino insuperabile il capolavoro di Rosi è la capacità di inventare una canalizzazione estetica che possa esprimere onestamente la conoscenza assolutamente limitata della situazione descritta. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Rosi assieme a Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas restituisce perfettamente l’idea che i personaggi siano a tratti tremendi carnefici e a tratti vittime di un gioco estremamente più grande di loro. Poi c’è la terra di Sicilia con i suoi abitanti, coinvolta nel medesimo meccanismo e quindi costretta a essere oggetto e artefice dei disordini governativi. I netti contrasti d’ombra e luce che la fotografia di Gianni Di Venanzo raccontano di una profonda ignoranza civile della gente, della sua spaventosa tendenza all’omertà e dell’indifferenza.


Basta già questo lavoro del 1962 per comprendere che il regista de I magliari (1959) è stilisticamente cresciuto, che ha capito che il cinema può essere uno spazio di impegno sociale prima che di giudizio. Solo l’oggettività dell’indagine narrativa può costituire il fondamento di un pensiero. Rosi sa di non poter dare risposte laddove è già tanto difficile porsi le giuste domande. Perché, come scrisse il cronista Tommaso Besozzi a proposito dell’assassinio di Giuliano: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Ci saranno anche esperienze più politicamente schierate nella carriera di quest’autore (basta ricordare Le mani sulla città, in tal senso), ma è quella bravura nel dirigere vere e proprie inchieste cinematografiche a fare di Rosi un maestro inimitabile. Restiamo ancora basiti e sconcertati davanti alle deduzioni che siamo costretti a trarre dalla visione del finale de Il caso Mattei (1972) con lo straordinario Gian Maria Volontè. Salvatore Giuliano - che vinse l’Orso d’Argento a Berlino dopo essere stato rifiutato a Venezia - apre la strada a tutti quei film scomodi, ma necessari perché nati sotto il segno della responsabilità civile.


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