Siamo nella Berlino degli anni Ottanta, ovvero in una città immune dal progresso e tragicamente ossessionata dalle ferite della propria storia. Nessuno (a parte i bambini) può vederli, ma un popolo di angeli veglia dall’alto sugli abitanti della capitale tedesca. Vagano tra gli esseri umani e ascoltano i pensieri più profondi di ognuno, si accostano a loro nel tentativo di lenirne le sofferenze. Tra essi ci sono Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), che amano scambiarsi le rispettive esperienze e fantasticare su come sia vivere. La curiosità diventerà una morsa per Damiel che, dopo aver conosciuto la trapezista Marion (Solveig Dommartin) e l’attore Peter Falk (che nel film interpreta se stesso), sceglie d’intraprendere un inusuale percorso. È il 1987 quando Wim Wenders gira Il cielo sopra Berlino e appare strano che scelga proprio questa città divisa e spietata per il suo ritorno a casa dopo il periodo trascorso in America e i relativi successi. Questa volta l’esigenza è quella di fare un film spontaneo, sincero e magari di realizzarlo solo per sé. La voce che guida l’opera è quella di un uomo meno cosmopolita di quanto ci si aspetterebbe e in effetti il regista si cimenta in un approfondimento della cultura germanica che è anche un’intensa e sentimentale riscoperta delle proprie origini. L’ispirazione per la storia proviene infatti dalla poesia di Rainer Maria Rilke, dominata perlopiù da figure mistiche e angeliche; mentre l’aiuto per alcuni versi contenuti nei dialoghi arrivano dallo scrittore austriaco Peter Handke, in particolar modo, dal suo "Lied vom Kindsein" (alla buona traducibile come "Canto della fanciullezza"). Proprio questo poema apre il film e non si tratta certamente di un caso: uno dei temi prevalenti è la purezza appartenente alle creature vicine al Regno Celeste, che possono dunque riconoscersi reciprocamente. I bambini dunque vedono gli angeli, ma non nello stesso modo nel quale questi sono visti da loro: gli esseri umani vivono in un mondo fatto di sensazioni e colori, le creature divine hanno invece conoscenza e infinite sfumature d’argento. Una raffinata scelta estetica, concordata con il direttore della fotografia Henri Alekan, che però è addirittura già una codificazione dell’emotività dei personaggi. Damiel e Cassiel, pur dal loro punto di vista privilegiato, cominciano a capire che c’è qualcosa oltre l’essenziale degno di essere scoperto. Allo stesso modo le persone hanno sempre percepito un qualcosa di diverso dal mondo tangibile, un qualcosa di superiore al quale è indispensabile aspirare. Marion fa la trapezista e con le sue ali sintetiche finge di volare. Il suo movimento verso l’alto è già amore e Damiel per raggiungerla è costretto letteralmente a "cadere" innamorato, abbandonando così il cielo sopra Berlino. Wenders vuole però spingere la sua riflessione anche verso gli angeli la cui presenza ha potuto comprendere, ovvero quelli che attraverso l’arte hanno portato la voce del Divino all’orecchio dell’umanità. Naturalmente il riferimento principale è alla rappresentazione cinematografica, come dimostra il fatto che lo stesso Peter Falk sia un angelo caduto e che il film sia dedicato a François Truffaut, Andrei Tarkovskij e Yasujirō Ozu. Ma a ben guardare la vera protagonista della vicenda è naturalmente la stessa città di Berlino, che nel 1987 rappresentava un’impegnativa scelta scenografica. Distrutta dalla storia e divisa al suo interno da un freddo muro di pietra, il regista di Dusseldorf ne rimane affascinato e sconvolto. Inserisce alcuni spezzoni storici estrapolandoli direttamente dagli sguardi di quegli stessi berlinesi che cercano la verità dentro i libri della Biblioteca di Stato di Potsdamer Strasse, progettata da Hans Scharoun proprio a questo scopo. Gli angeli osservano dall’alto della Colonna della Vittoria gli uomini che costruiscono per l’ennesima volta un destino distrutto. La pace arriverà da lì a poco, ma nell’attesa c’è il cinema con le sue meraviglie. Il cielo sopra Berlino (vincitore della Palma d’Oro a Cannes) oltre a essere un caposaldo del Nuovo Cinema Tedesco, rappresenta anche la certezza che la bellezza può e deve essere una soluzione.