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Suite francese

10/03/2015 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Suite francese

1940...

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1940. Da quando i nazisti sono entrati a Parigi, Lucile Angellier (Michelle Williams) vive da rifugiata con l’austera suocera (Kristin Scott Thomas) nella sonnacchiosa Bussy, in attesa di ricevere notizie del marito, prigioniero di guerra. Quando la cittadina viene occupata dai tedeschi, la vita di Lucile è sconvolta dall’arrivo di un ufficiale, Bruno Von Falk (Matthias Schoenaerts), assegnato di sorveglianza a casa Angellier. Tra Lucile e Bruno nasce un’appassionata storia d’amore ostacolata dalla guerra, dai sensi di colpa e dalle accuse di collaborazionismo e tradimento.


La Suite française che addolcisce il cuore di Lucile e la fa innamorare perdutamente di Bruno, è opera di Alexandre Desplat. Una melodia che risuona lungo le sequenze del film di Saul Dibb e, come era già stato per Lezioni di Piano, fa ruotare attorno a un “pianoforte galeotto” l’amore colpevole fra i due protagonisti. Qui però, l'infedeltà di Lucile non è solo coniugale ma assume i toni gravi di un tradimento alla propria nazione, per un nemico amato che le fa dimenticare il proprio dovere di cittadina e di moglie. Nonostante Dibb e la sua produzione ripongano massima cura nei dettagli e nella ricostruzione del claustrofobico paesino francese, l’atmosfera del film si ferma a un elegante affresco d’amore e guerra, rinunciando all'autenticità dolorosa del romanzo di Irène Nemirovsky. Dalla sofferente penna di un’ebrea di Kiev - che prima di morire ad Auschwitz nel 1942 ha addolcito i suoi ultimi giorni da sfollata con la redazione di un romanzo in qualche modo “catartico” - nasce Suite Francese, una storia d’amore che indaga le emozioni della guerra, violente anche quando si tratta di sentimenti. L’opera della Nemirovsky è un caso letterario particolarmente delicato: l'autrice stessa, prima di partire per il campo di sterminio, affida il romanzo - ancora incompiuto - alle sue bambine, che lo custodiscono per sessant’anni fino alla pubblicazione nel 2004 a opera di Denise Epstein, figlia della scrittrice. Le milioni di copie vendute si devono però non solo alla sfortunata storia della scrittrice. La vocazione della Nemirovsky, probabilmente derivata dalle sue origini, era quella di concepire un romanzo storico sul modello dei grandi russi (il progetto iniziale era di cinque libri, di cui solo due giunti a conclusione), che raccontasse la trasformazione di un popolo attraverso i suoi protagonisti.


Nel tentativo disperato - forse persino autobiografico - di trovare dolcezza dove pareva non essercene più, il mondo della Nemirovsky è soprattutto femminile. Del resto, ciò che salva Suite Francese dal pomposo affresco storico sono le interpretazioni delle attrici. Se, nei panni di Bruno, Matthias Schoenaerts è meno efficace che nel bellissimo De rouille et d'os che lo ha lanciato, la protagonista di Michelle Williams è personaggio tragico e affascinante. Peccato che il film mantenga invece tutti i limiti delle regie di Dibb. Come già era stato per La Duchessa, anche in Suite Francese le energie sono interamente riposte nella ricostruzione di una cornice storica che, per quanto perfetta, manca il cuore sia dei personaggi sia della vicenda. Persino le comprimarie interpretate da Ruth Wilson e Margot Robbie meritavano un'indagine meno feulleitton e più cinematografica: Madeleine è una moglie fedele costretta a difendersi dalle avances di un arrogante soldato nazista; Celine, bella e spregiudicata, non teme il giudizio e difende la propria passione. Per Lucile, le due donne diventano opposti modelli di comportamento, accumunati da uno stesso inalienabile diritto alla libertà. Neanche l'ottimo cast riesce a salvare il film di Dibb dal prevedibile effetto "drammone" in costume. Amori impossibili, ufficiali coraggiosi, soldati vigliacchi e fuochi di guerra sono rappresentati con effettistica e scenografie enfatiche, necessarie solo a banalizzare il romanzo della Némirovsky e ad annullare quel poco di psicologia dei personaggi che gli attori migliori riescono a restituire. Una trasposizione che, nonostante l’esasperazione didascalica di ogni componente della storia, finisce per risultare comunque tiepida e poco coinvolgente.


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