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L'ultimo lupo

25/03/2015 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

L'ultimo lupo

Tra Kevin Costner che ballava coi lupi e Shaofeng Feng che li adotta, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia...

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Tra Kevin Costner che ballava coi lupi e Shaofeng Feng che li adotta, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Era il 1990 quando John Dunbar veniva inviato d’avamposto in mezzo ai Sioux e ne era conquistato al punto da cambiare schieramento. Venticinque anni dopo, contro le aspettative di chi considerava quell’approccio ingenuo e facilmente superabile, Jean-Jacques Annaud - re Mida del cinema, autore di Bianco e nero a colori e Il nome della rosa - torna a proporre sul grande schermo la storia di un uomo, straniero nella sua terra, e di un lupo. Il regista francese accetta la sfida della prima trasposizione de Il totem del lupo di Jiang Rong, il più celebre romanzo cinese mai scritto, costata al Paese delle Cinque Stelle un budget da vero kolossal.


Nel 1967, in piena rivoluzione culturale, Chen Zhen (Shaofeng Feng), studente universitario di Pechino, è inviato dal governo fra le comunità nomadi della Mongolia per vivere con loro e alfabetizzarle. A imparare qualcosa però sarà lo stesso Chen: conquistato dalla vita semplice delle popolazioni e dalla natura selvaggia, il giovane sarà pronto a sfidare l’autorità cinese contro lo spietato sfruttamento del territorio che rischia di costare la vita ai lupi della steppa. Gli stessi che Chen ha imparato a conoscere e proteggere.


Dopo aver guardato a est con Sette anni in Tibet, Jean-Jacques Annaud viene stavolta letteralmente "assoldato" dalla Cina per dirigere il bestseller nazionale in un revival ambientalista non privo di implicazione politiche. In teoria L'ultimo lupo ha in sé una buona dose di autocritica sulle contraddizioni della rivoluzione cinese, una riflessione sul caro prezzo pagato per raggiungere il progresso e la potenza odierna. Trovatosi sbalzato in una storia profondamente orientale con cui - inevitabilmente - non riesce a entrare in piena empatia, Annaud fatica a rendere sullo schermo così tante implicazioni (spituali, politiche, sociali) e preferisce appellarsi alla sua più grande dote di cineasta: la contaminazione. Il risultato è un'opera svuotata di molti dei contenuti, ma visivamente ineccepibile. Un po’ di Mission, un po’ di Balla coi lupi per raccontare in stile occidentale una storia cinese che arriva leggermente fuori tempo, velata di un tonalità new age che riportano lo spettatore indietro di qualche decennio.


Dopo che, solo pochi anni fa, con la navigazione in solitaria di Pi, Ang Lee aveva drasticamente innovato il modo di raccontare l’ammansimento reciproco fra uomo e animale, con L'ultimo lupo Jean-Jacques Annaud sceglie di tornare ai motivi degli anni Ottanta: fra tutti, l'estemporanea riscoperta del buon selvaggio. Una narrazione favolistica - alla Jack London - genera un mondo di tinte nette diviso fra buoni e cattivi, in cui i deboli (animali compresi) vanno protetti dagli sfruttatori. Una morale che lascia emergere una denuncia del capitalismo cinese piuttosto blanda, se non nelle intenzioni di certo nel risultato. Un film talmente tiepido nella critica e così ostentato nell’esaltazione della bellezza naturalistica da assomigliare a un manifesto promozionale prima ancora che a un film storico. Tutto il suo meglio, del resto, Annaud lo offre nella cura della messa in scena: nella splendida fotografia di Jean-Marie Dreujou e, soprattutto, nella straordinaria tecnica cinematografica con la quale sono resi i lupi. L’animale, il cui simbolismo (forse non troppo originale, ma sempre affascinante) regge l'’intera trama, si erge in scena vivo e pulsante di un Imax 3D perfetto. Una energica presenza che fa dimenticare ad Annaud, forse una volta di troppo, il protagonista umano. Poco male. Ancor più che il rapporto fra uomo/animale, interessa al regista la rappresentazione del branco: una società perfetta, facile allegoria di una vita appartata ma in qualche modo fedele alla natura e alla terra natale.


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