L'aria brucia: un deserto sconfinato si stende sotto il sole rovente australiano, dove Max (Tom Hardy), al fianco dello scheletro della sua vettura, cerca di liberarsi dei fantasmi del passato. Il mondo ormai non è altro che una pianura arida dove gli uomini si sono persi, deformati, e combattono solo per le risorse naturali. Max viene catturato e portato nella Cittadella, rifugio di Immortal Joe (Hugh Keays-Byrne), dove viene ridotto a sacca di sangue per il guerriero Nux (Nicholas Hoult). Quando Furiosa (Charlize Theron), una delle imperatrici della Terra Desolata, sfrutta una missione di rifornimento per scappare via insieme al bene più prezioso di Joe, comincerà una vera e propria caccia: un inseguimento senza fine in un mondo popolato da macchine e da disperazione, in cui Max cercherà - suo malgrado - la redenzione. Ci sono voluti circa dieci anni affinché George Miller riuscisse a realizzare il nuovo capitolo della sua saga di Mad Max, iniziata nel 1979 con Interceptor. Un decennio in cui il cinema ha cambiato volto, trasformandosi in una creatura a volte stanca, vergognosa di mostrare le crepe di una creatività in difficoltà . Fury Road rischiava di essere proprio questo: l'ennesimo tentativo da parte di Hollywood di arginare i danni, di fare economia su una storia che in passato si era mostrata vincente. Invece il regista è arrivato al confronto con lo schermo con una pellicola che non mostra difetti, non mostra età , non mostra limiti. Mad Max: Fury Road inizia con un rapimento e con un tentativo di fuga che, da soli, varrebbero la visione. Un quarto d'ora senza che il volto di Tom Hardy si veda mai in modo nitido: quindici minuti di assoluta pazzia, di accelerazioni repentine, di sudore e fatica. Quell'inizio, un prologo giocato tra ombra e luce, è la perfetta via d'accesso a una pellicola che si tuffa nelle pieghe del genere d'azione, reinventandolo. Miller, la cui regia è precisa come un metronomo e indiavolata come il rock più duro, gioca senza apparente sforzo su un immaginario che affonda le radici nel cinema di frontiera: Mad Max: Fury Road è un western postmoderno, che ricalca persino la monumentalità e la sacralità dell'immagine della Monument Valley per creare un attacco alla diligenza senza uguali, in cui l'umanità sembra aver lasciato il posto a una bestialità che graffia e ferisce, senza mai lasciare nulla di intentato. Baciato dalla meravigliosa fotografia di John Seale, che ricopre il mondo di un velo ocra, alternandolo con filtri blu da incubo, Mad Max: Fury Road è un film estremamente avvolgente. Lo spettatore ha sin da subito la sensazione di essere in scena e di sentire i granelli di sabbia, lungo la schiena, imbrattargli abiti e anima. Le due ore di visione filano via senza che ci sia mai un solo secondo di calo della tensione. Il pubblico è lì, sempre presente, arroccato sulle poltrone: la sua coscienza è smossa dall'ottima colonna sonora, che miscela rock e musica classica, in una continuità melodiosa e armonica. A tutto questo, naturalmente, non si può non aggiungere il grande apporto dato dalle prove istrioniche di tutto il cast. Tom Hardy recupera il ruolo che fu di Mel Gibson e lo rinnova, dandogli spigoli che sembrano guardare addirittura a Shakespeare: spinto alla sopravvivenza, quasi ridotto egli stesso a una bestia che lotta per continuare a respirare, Hardy costruisce il suo personaggio sulla sua presenza scenica. In tutto il film non pronuncia più di un centinaio di parole, ma ogni sguardo è la lettera di un alfabeto muto ma chiarissimo, che la Furiosa di Charlize Theron riesce a interpretare. L'imperatrice del film è una donna che non si arrende, una combattente che ha umiliato il suo corpo per un bene più alto. Quello sullo schermo è un teatro della vulnerabilità : tutti i personaggi devono dimostrare qualcosa, redimersi da errori che potrebbero altrimenti condurli all'inferno. E lo spettatore non può fare a meno di lasciarsi trascinare da questo road movie ante litteram.