Un luogo, per la precisione la città di Bobbio, è ciò che fa da collante in questo ultimo lavoro di Marco Bellocchio, presentato in concorso al Lido a Venezia72. Luogo che ritorna, autocitazione registica visto che è proprio in quella città che Bellocchio aveva girato il suo film d’esordio I pugni in tasca. Spaccato in due dal punto di vista temporale e narrativo, il film racconta la storia di una monaca, processata e murata viva per possessione demoniaca per aver sedotto un prete. Il fratello dell’uomo, Federico Mai, si reca sul posto e tenta di scoprire la verità . Lo stesso erede di Federico Mai sarà invece il protagonista della seconda parte del film, ambientata nel presente. L’uomo architetta una truffa per acquistare il convento di Bobbio, occupato segretamente da un Conte misterioso. Continua a usare il suo marchio di fabbrica il regista piacentino, che realizza pellicole sempre meno ancorate a una necessarietà tramica e che puntano sulla messa in scena per veicolare significati altri, lontani, a volte monchi o caduchi ma comunque affascinanti. Sulle ceneri di un vecchio mondo ormai sepolto, murato vivo come la sua protagonista si avvia una nuova fase, aperta alla speranza con una luce accecante. Tutta quella stregoneria che aveva tinto di sangue la prima parte inizia ad affievolirsi col passare del tempo, quando il seme del male - trasmesso di generazione in generazione - inizia a essere meno resistente ai cambiamenti, meno duro a morire. Così, dipanando un soggetto che è quasi una sua convinzione mentale, il regista realizza un’opera rovesciata: cupa e dark nella prima parte, ambientata intorno al ‘600, in cui i personaggi recitano in costume in un luogo claustrofobico; con una seconda contemporanea e molto teatrale, dai toni farseschi e grotteschi. I due mondi sono comunicanti, ma lo sforzo richiesto è grande. Perché bisogna conoscere un po’ Bellocchio e perché nulla è esplicitamente dichiarato, a parte Bobbio. Occorrerebbe sapere, ad esempio, che nel film recita la famiglia del regista, che i personaggi in qualche modo si assomigliano e che i legami di sangue sono fondamentali. Sangue del mio sangue usa così il legame parentale con una connotazione negativa: sono gli stessi errori che si tramandano, arterie in cui scorrono insieme tutti i mali prodotti dall’uomo, tutto ciò che le religioni e il potere hanno prodotto. Il senso di colpa riecheggia forte e si fa sintesi armonica: l’Inquisizione, il giudizio e l’espiazione della prima parte sono scontati nella miseria della seconda, in cui uomini quasi derelitti si mettono alla pubblica berlina, in una confessione di piazza. Unico equilibrio nelle immagini (grazie alla fotografia di Daniele Ciprì), tutto il resto è in bilico tra pathos e sfrontatezza, tra libertà negli schemi. Così Bobbio, il paese dell'infanzia, è il luogo in cui il regista chiude un cerchio: esorcizzando i suoi demoni e aprendosi, col cuore pacificato, a un tempo nuovo.