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Human

02/03/2016 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Human

“Sono un uomo fra sette miliardi di altri uomini...

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“Sono un uomo fra sette miliardi di altri uomini. Negli ultimi 40 anni ho fotografato il nostro pianeta e la diversità umana, e ho l’impressione che l’umanità non stia facendo alcun progresso. Non sempre riusciamo a vivere insieme”. Queste le parole attraverso cui Yann Arthus-Bertrand, con la sua decennale esperienza nel campo della fotografia, trova la formula perfetta per Human e giunge al quesito in grado di dar vita al suo progetto più ambizioso: perché non riusciamo a vivere insieme? Tale primordiale questione spalanca una finestra su duemila volti e altrettanti mondi, attraverso cui lo spettatore può comunicare grazie allo sguardo di chi narra le proprie storie e può ascoltare le parole (espresse in sessantatre diverse lingue per sessanta paesi di provenienza degli intervistati) di una donna costretta a subire la violenza perpetuata nel tempo da un marito che “la ama”; quelle di un uomo, ormai condannato all’ergastolo, che scopre cos'è l’amore solo dopo aver massacrato la propria famiglia. E ancora la sempiterna opposizione tra povertà e ricchezza, espressa in termini di sofferenza da entrambe le parti.


Human si presenta, quindi, come un mirabolante mosaico di primissimi piani - simili a fotografie - che si alternano a filmati aerei di incredibile bellezza che attingono a piene mani dalla fotografia di Steve McCurry, oltre che ai precedenti lavori di Bertrand stesso. Il regista-fotografo, facendosi portavoce (grazie alla voce di altri) di un messaggio più o meno politico, riscopre la “Terra vista dal cielo” - titolo di quel suo inventario fotografico risalente al 2004 - come necessariamente scalfita dalle orme di ciò che l’umanità, significante e indispensabile porzione di natura stessa, porta dietro di sé. La paura del singolo individuo di non lasciare “tracce” del suo passaggio dopo la propria morte; o, ancora, il terrore delle conseguenze della guerra devastatrice o della carestia di una Madre terra che, non sempre abbastanza generosa, garantisce riparo ma non nutrimento. Le vedute panoramiche di paesaggi vivi in cui l’uomo s’incastra alla perfezione e in collettività - a voler descrivere il pianeta come un luogo di dirompente vigore in cui l’animo dell’essere umano trova il preciso riflesso - costituiscono forse la vera punta di diamante dell’opera. La vitalità della natura che sgorga da una cascata, le dune di un deserto: immagini di stupefacente bellezza, fanno in Human da contrappeso alla durezza delle parole pronunciate dagli intervistati, stabilendo un netto contrasto fra i due principali frammenti di cui il film-documentario si compone.


Sebbene la varietà di temi abbracciati sia di tale vastità da risultare, a tratti, quasi scivolosa e non sempre “traforante”, non si può non riconoscere al film una cristallina e onesta ode alla bellezza del mondo: anche se si tratta di un mondo (ed è questa l’intuizione più interessante) descritto come un'amalgama di ogni biosfera di cui è composto, e non della loro netta separazione. Una fila di contadini che lavorano la terra; un gruppo di donne che sorridono, osservandoci dal basso e guardando in camera, mentre lavorano il proprio pezzo di terra: nessuno di loro è una minaccia per la terra e l’uomo non è più un estraneo ospitato, bensì suo frammento integrato e integrante. Allo stesso modo, le donne e gli uomini che si esprimono riguardo altri individui si scoprono non più distanti e opposti, bensì aggregati l’un l’altro in un grandissimo organismo, quello stesso che porta il nome suggerito dal titolo dell’opera. Ogni persona si riscopre inevitabilmente congiunta a tutte le altre in un rapporto di reciproco e biunivoco scambio, senza il quale le esperienze narrate - per quanto atroci e disumane - non avrebbero avuto luogo. Allora qual è la risposta all’enigma posto? Yann Arthus-Bertrand non lo spiega, chiaramente; ma lascia parlare tutti coloro che hanno fronteggiato la dolorosa e ambigua domanda sul senso della propria vita.


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