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Il profeta

04/02/2010 12:00

Emidio De Berardinis

Recensione Film,

Il profeta

In Francia uno dei maggiori problemi attuali su cui ministri e consiglio d’Europa si confrontano è la situazione nelle carceri...

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In Francia uno dei maggiori problemi attuali su cui ministri e consiglio d’Europa si confrontano è la situazione nelle carceri. Il sovraffollamento e l’altissimo tasso di suicidi hanno portato a trovare una soluzione che possa alleviare la condizione dei prigionieri. Jacques Audiard ambienta proprio in una delle prigioni francesi Il profeta e lo presenta al Festival di Cannes, aggiudicandosi il Gran Premio della Giuria.


Malik (Tahar Rahim) è condannato a sei anni di reclusione. Essendo da poco maggiorenne dovrà scontare la sua pena in una prigione per adulti, dove si scopre fragile, giovanissimo e senza difese. Viene preso di mira dal capo di una gang corsa (Niels Arestrup) che sembra avere il controllo delle guardie carcerarie, e che gli commissiona un omicidio. Attraverso una serie di “missioni”, il giovane riuscirà a conquistarsi la fiducia e a imparare a stare al mondo, iniziando la sua scalata al potere.


Nella conferenza stampa tenutasi a Cannes, il regista Audiard si rivolge a Malik come a un “nuovo prototipo di uomo”. Il profeta è infatti la storia di un ragazzo apparentemente senza passato, analfabeta, senza radici, un piede arabo e uno francese, che dal nulla si conquista la notorietà e i propri personali seguaci. Un “profeta contemporaneo”, una persona comune capace di gesta “eroiche”, tra omicidi, spacci internazionali, sparatorie e regolamenti di conti. È la storia di una crescita personale: Malik impara come affrontare il mondo e le sue infime regole, passando dalla necessità di sopravvivere e tenere salva la pelle, al miglioramento della sua condizione di vita, alla scalata al potere. Scrive la sua storia in parallelo allo scorrere della pellicola, così da sembrare di non aver mai vissuto prima. E Audiard usa sapientemente e volutamente il volto di un bravissimo Tahar Rahim per dare verosimiglianza al suo personaggio.


La pellicola, più che una denuncia, è una storia con una forte connotazione sociale, un racconto reale e verosimile. La sua durata, per quanto estesa, non risulta eccessiva, anche grazie al magistrale uso di un montaggio serrato. C’è quasi un’assenza di pause narrative che tuttavia non stanca lo spettatore che segue le azioni svolgersi molto velocemente, attraverso stacchi rapidi e concitati. Una storia attuale raccontata in modo semplice e funzionale, un film che è un’apnea dall’inizio alla fine.


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