Si chiama Indivisibili ed ha generato un acceso dibattito durante la 73esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Parliamo di un film italiano, un bellissimo lavoro realizzato dal regista Edoardo De Angelis (Mozzarella Stories, Perez.) e presentato nella sezione Giornate degli Autori. Da qui un polverone: perché Indivisibili prende un’idea originale e la sviluppa con un certo stile, un tema interessante che meritava forse l’attenzione mediatica del concorso, a detta di molti, più di altri italiani presenti nella sezione. Nonostante l’esclusione dalla competizione, la pellicola si fa comunque notare: guadagna il Premio Pasinetti per il miglior film e pareri entusiastici di gran parte della critica cinematografica. Dasy e Viola sono più che sorelle: son gemelle siamesi. Sono unite alla nascita e i loro genitori non hanno mai pensato di separarle, nonostante le due ragazze non condividano alcun organo vitale. Le due gemelle non sono solo unite fisicamente, hanno in comune uno strano destino: figlie di un cupo musicista che ha pensato bene di sfruttare il loro handicap per crearne un fenomeno mediatico e fare una palata di soldi. Le ragazze hanno una voce bellissima e se ne accorgono in molti, soprattutto un seducente produttore. Sono benedette dal Signore: la loro vita così straordinaria, due bellissimi corpi uniti in un unico punto, le rende segno dell’esistenza divina. La loro presenza ai matrimoni, ai battesimi, è un evento beneaugurale. Ma il passaggio dall’infanzia all’età adulta è dietro l’angolo. Forse è tempo di spezzare questo legame. Ciò che dio unisce l’uomo non separi. Così, le eroine di De Angelis sono piccole divinità, sirene dal viso angelico, che incantano folle di credenti e pagani, piccole starlet partenopee che corrono abbracciate per i vicoli del paese. Edoardo De Angelis firma la regia di una pellicola popolare e ambiziosa: con una messa in scena teatrale e pittorica allo stesso tempo, che si manifesta sia nelle scelte visive e nei bellissimi close-up sui volti. Uno stile che ricorda quello di Garrone, con uno sguardo che indugia sul miserabile e lo eleva a dimensione artistica. Con un citazionismo elegante (Federico Fellini, La donna scimmia di Marco Ferreri, nome dato tra l’altro a uno dei personaggi del film) che sceglie però la messa in scena della sceneggiata. Il film, che vive di contrasti, appare però a tratti scollato, con una prima parte più iconica e delicata e una seconda che trasuda eccessi. Lavorando per accumulo, la regia introduce sempre più elementi e crea un circo musicale abitato da personaggi più strambi, che si muovono in equilibrio precario, al limite del kitsch. Ma così non è: l’uso esperto della steady incornicia in bellissimi quadri le scene più patetiche; il punto di vista fascinoso del voyeuristico, di una curiosità morbosa, accompagna lo spettatore per l’intera durata della pellicola; le musiche di Avitabile fanno decisamente il resto. Ci sono evidenti limiti (la caratterizzazione dei personaggi accennata, l’abusata retorica del bizzarro, meccanismi di non-sense non proprio oleati) in questo grosso caos danzante - nonostante la sceneggiatura dei bravissimi Nicola Guaglianone e Barbara Petronio, che questa volta fatica a mantenere un’unità armonica - eppure il film mantiene un certo indiscutibile fascino. Lasciando la strada iniziale per una forte sterzata verso il grottesco, il film diventa una costellazione di bellissimi spunti creativi, tenuti insieme da legami affascinanti ma troppo precari. Questo è il paradosso di Indivisibili. Che siano proprio le sue componenti filmiche a non essere unite.