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Genius

08/11/2016 12:00

Riccardo Cotumaccio

Recensione Film,

Genius

L’esordio su grande schermo del regista teatrale Michael Grandage

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Max Perkins (Colin Firth) è il miglior editore letterario di New York. La sua carriera alla Charles Scribner's Sons, nota per aver portato alla ribalta autori del calibro di Ernest Hemingway e F. Scott Fitzgerald, si trova a un bivio inaspettato quando si imbatte in un nuovo, interessante, scrittore: Thomas Wolfe (Jude Law). L’incontro tra i due, da subito condito da sprazzi di energia culturale e intellettuale, genera un rapporto sempre più ossessivo, pericoloso per le rispettive vite private. E il successo di Tom, eccentrico e sfacciato, accostato al più silenzioso autocompiacimento di Max, apatico e inappuntabile, diventa ben presto terreno di scontro.


Genius rappresenta l’esordio su grande schermo per Michael Grandage, regista teatrale ed ex direttore della Donmar Warehouse, noto teatro londinese, cui ha dedicato dieci anni della sua carriera. Che il terreno di Grandage sia il teatro si vede e non poco. Genius fonda la quasi totalità del suo successo sull’intensità e la bravura delle interpretazioni in gioco: è soprattutto Jude law a bucare lo schermo con il suo savoir fare arrogante e pieno di sé, specchio fedele di un personaggio apparentemente imbattibile, ma toccato nel più profondo da mille insicurezze. Wolfe è così convinto del suo potenziale da sputare sulla depressione di F. Scott Fitzgerald (Guy Pearce) e talmente egocentrico da accusare Perkins di voler ridimensionare i suoi lavori tagliandone innumerevoli pagine. Proprio in quell’editing, per dirla alla inglese, risiedeva invece il segreto di Max Perkins: più vecchio e disincantato di Tom, più impiegato e meno artista.


Scritto da John Logan e liberamente ispirato al romanzo di Andrew Scott Berg, Genius trova il suo miglior pregio nel racconto di un rapporto capace di alienarsi da tutto, persino dalle individualità di cui è composto. Tom non esiste più senza Max, e viceversa. Il regista, furbo nella scelta dei due protagonisti, li dirige come fossero maschere, caratterizzandoli al massimo e relegando la cornice fisico-temporale a mera nuvola offuscata dal talento recitativo. New York si pronuncia a stento: si riconoscono gli impermeabili sotto la pioggia e poco altro. L’America è un mondo solo accennato, di cui si ricorda una spiaggia assolata e niente più. Il segreto della sceneggiatura sta nei rapporti umani e nella loro speciale capacità di dar vita a capolavori letterari. Un film che insegna come l'arte, da sola, possa essere poco fruibile: serve il tocco di un freddo mestierante, che abbia il coraggio di togliere qualche ramo dall’infinito albero della creatività.


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