
Sogni, aspettative, propositi e realtà. La vita di ogni giorno scorre più lentamente, se la si vive da dietro le sbarre. Errori di gioventù, crimini inaspettati e storie sorprendenti fra le mura di Rebibbia, un carcere che dovrebbe, secondo l’articolo 27 della Costituzione Italiana, custodire i detenuti che devono scontare la pena tenendo sempre presente la prospettiva del reintegro in società una volta pagato il debito con la giustizia. Questo viaggio tra gli ultimi mostrerà quanta strada ancora c’è da fare in merito alla formazione successiva alla detenzione. Ombre della sera accende i riflettori sulle vicende legate alla detenzione: prima, durante e dopo la pena. Dall’entrata in carcere sino al trascorrere delle giornate, che sembrano sempre vuote e sterili. Man mano le ambizioni svaniscono e si rimugina sul proprio vissuto: un cocktail di rimpianti e occasioni perse che per alcuni può essere fatale; per altri invece diviene uno stimolo da cui ripartire. C’è chi si lascia abbattere dalla depressione e chi, al contrario, si convince a dover mettere un punto e andare a capo. Ricominciare con un obiettivo: riprendersi la propria vita, cercando un impiego diverso che cancelli – per quanto possibile – gli sbagli precedenti. Purtroppo, però, la detenzione è un timbro indelebile sul curriculum. Quindi, una volta fuori dal carcere, paradossalmente, è più difficile esercitare il diritto alla propria libertà. Ci si sente inadeguati, estraniati, estromessi da un contesto culturale mutato negli anni in cui arrancare. E mentre l’attesa si trasforma in utopia, sempre più netto e definibile diviene il rischio di una ricaduta: tornare a delinquere perché è l’unica cosa che siamo capaci di fare, una certezza ricorrente per chi quelle sbarre, ormai, le viveva come una seconda casa. Un rifugio che non ripara ma sgretola vite e certezze, partiti politici e istituzioni hanno sollevato più volte il problema ma la risposta è stata sempre un silenzio assordante. Questo docufilm non vuole porre giustificazioni dinnanzi ai crimini commessi, piuttosto desidera evidenziare quanto ancora poco si faccia per coloro che mostrano reali intenzioni di cambiamento: ci sono anche persone che vivono il carcere come un passaggio obbligato che li porterà alla riabilitazione. Molto spesso questa non arriva, perché durante il “soggiorno” gli ospiti non vengono preparati al futuro. Si vive alla giornata, si cambia lessico, per far passare l’ipotesi che anche il nostro Paese sappia ricostruirsi dopo la tempesta. Tuttavia, la realtà sembra essere diversa: l’accoglienza è un tema dibattuto, spesso in merito a chi viene dal mare. Valentina Esposito comincia a farsi le stesse domande che si farebbe chi vede la prigione da lontano per poi finire a realizzare un’opera che attraversa le pareti carcerarie catturandone ogni sospiro ed esitazione. Ed è proprio fra quei sospiri che si modulano gli accenti fra civiltà e inciviltà, fra stato di diritto e fine pena mai. Sussulti e rigurgiti verso la parte ammaccata di un popolo che non desidera altro se non tornare a far sentire la propria voce spezzata da qualche incidente di percorso. Un monito alla giustizia verso il rischio dell’oblio, che dovrebbe diventare un diritto, quando le macchie del passato si trasformano in cicatrici, dopo aver pagato i propri debiti.