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Moschettieri del Re - La Penultima Missione

19/12/2018 12:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

Moschettieri del Re - La Penultima Missione

Giovanni Veronesi stravolge Dumas per farci ridere

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Moschettieri del Re - La Penultima Missione nasce da un’esigenza: riportare il cinema di genere a casa nostra, rielaborare un classico della letteratura internazionale a tinte italiche. Giovanni Veronesi questo desiderio l’ha sempre avuto. Ci ha provato nel 1998 con Il mio west, rimanendo piuttosto deluso: malgrado il film abbia avuto successo – come ha confessato alla stampa – «era stato fatto un ibrido: metà internazionale, metà italiano». La sua idea di partenza era rimasta, diciamo così, incompiuta. Vent’anni dopo, questa fantasia riesce a concretizzarsi grazie a un cast corale e di spicco. Sergio Rubini, Rocco Papaleo, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino ci riportano all’epoca dei tre moschettieri ripercorrendo le gesta degli eroi frutto della penna di Alexandre Dumas. Il manipolo di uomini è al servizio del re di Francia – Luigi XVI – assistito, però, dal Cardinale Mazzarino. Il quale, nella sostanza, governa al suo posto. Toccherà, quindi, ai moschettieri, ormai a fine carriera e un po’ avanti con l’età, riportare l’equilibrio a corte riuscendo, magari, a salvare il sovrano da una trappola ordita ai suoi danni. Al loro fianco c’è la Regina Anna che, insieme a un’esuberante ancella, seguirà attentamente le gesta della missione.


Moschettieri del Re - La Penultima Missione, pur partendo da una vicenda alquanto nota, può definirsi innovativo: proporre un film corale, e di questa portata scenica, è difficile. Veronesi c’è riuscito (a un costo accettabile, nonostante le molteplici necessità) mettendo sul piatto un gruppo attoriale di prima qualità che ha permesso alla commedia di decollare piuttosto facilmente: l’artificio principale risiede nella dialettica dei singoli interpreti. Pierfrancesco Favino, con le sue doti artistiche, confeziona un gramelot italo-francese in grado di contestualizzare al meglio D’Artagnan: una versione a metà tra Zorro (notevole, infatti, è la dimestichezza con la spada) e l’ispettore Clouseau per via di un’eloquenza sconclusionata. Quest’improbabile paradosso linguistico spiana la strada agli altri colleghi che si dimostrano ottime spalle dell’attore romano, ma l’architettura scenica è sostenuta anche da una riflessione profonda che il regista e sceneggiatore pone con manierismo e delicatezza.


Si riflette, fra il serio e il faceto, sul concetto di straniero in patria; viene rinverdita la definizione di accoglienza e integrazione, partendo da buffe peripezie capaci ad alimentare sorrisi e approfondimento. Passato e presente coesistono in un solo calderone, equamente diviso fra avventura, fantasia, azione e romanticismo. Il ruolo delle donne è imprescindibile: Margherita Buy, nei panni della Regina Anna, sostiene le sue colleghe Matilde Gioli, Giulia Bevilacqua e Valeria Solarino. Insieme formano un connubio convincente, con l’intento di coinvolgere lo spettatore non soltanto nelle questioni più battagliere. La loro credibilità sposta l’attenzione anche nelle attività illecite che si compiono a corte. C’è, inoltre, la figura del super cattivo: Alessandro Haber, in grande spolvero nei panni del Cardinale Mazzarino.


Quest’opera arriva inaspettatamente sotto l’Albero per farci rivivere sensazioni perdute. Un plauso a Tani Canevari che, con una fotografia magistrale, ci regala l’impressione di essere in Francia... nonostante il film sia stato girato, quasi interamente, in Basilicata. Siamo al cospetto di un’irriverente rivisitazione della letteratura francese che consente suggestioni sul nostro operato, oltre che sulla concezione italica di epica ed eroismo, con l’azzardo di voler divertire. Impresa difficile, ma non impossibile, e sicuramente all’altezza di Giovanni Veronesi, che ha voluto alzare l’asticella dopo le precedenti esperienze cinematografiche.


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