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I figli del Fiume Giallo

02/05/2019 11:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

I figli del Fiume Giallo

Nelle metamorfosi della mentalità cinese

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Il cinema orientale va compreso entro una serie di rimandi e collocazioni che prendono vita nel momento in cui inizia la visione: ci si incomincia a chiedere dove voglia portarci il regista, fino a che punto intenda spingersi. Così il tempo diviene un artificio al servizio della Settima Arte e plasma accadimenti e istanti, per dar vita a un connubio di intenzioni e suggestioni. Proprio da questa convinzione parte I figli del Fiume Giallo, che potremo definire un noir avanguardista: la sua modernità si cela dietro l’ambizione di voler ripescare il passato e guardarlo sotto un’altra veste, parafrasando una differente parabola storica, possibile solamente se coesiste arguzia e solerzia. Binomio accessibile e accettabile in una vicenda che si svolge all’inizio degli anni Duemila e attraversa questo primo ventennio della nuova era.


Jia Zanghke vuole farci entrare nelle metamorfosi della mentalità cinese – e in parte giapponese – educata alle esigenze di potere. Qiao e Bin, protagonisti della vicenda, gestiscono una bisca finchè un agguato non attenta alla vita di Bin. Qiao spara e viene arrestata. All’uscita di prigione, dopo cinque anni, Bin ha cambiato vita e non vuole più vederla. Così comincia un excursus che il regista compie nei luoghi simbolo del suo repertorio cinematografico, facendo emergere alcuni lati oscuri della Cina e poco dibattuti dalle cronache. I figli del Fiume Giallo scompone l’equazione consolidata della fratellanza e dell’attaccamento dei protagonisti alle proprie radici: il concetto di territorialità è separato in maniera indissolubile da quello dell’anima, quindi ogni personaggio fa i conti prima con le proprie esigenze e poi, forse, le coniuga all’interno di una collettività.


Abbiamo, quindi, degli esseri spietati che divengono collante di una cattiveria gratuita e una crudezza inaspettata. Ci si immerge a piene mani nella scelleratezza umana e nell’impulsività, cifra stilistica che viaggia in lungo e in largo su un asse temporale di 17 anni. Si guarda all’antico, dunque, ma con gli occhi del futuro. Il domani, in Cina, così come in tutto l’Oriente, non è roseo e forse l’intento di Jia Zanghke è proprio quello di scuotere le coscienze attraverso l’artificio e la pantomima: è tempo di fare i conti con una nuova forma di consapevolezza. La società e la cultura stanno cambiando e la Cina fa da apripista persino nelle vicende più efferate. “Gli occhi della tigre” e “L’anima del dragone” non sono semplici perifrasi ma veri e propri capisaldi da cui ripartire, piegati a nuove esigenze con vizi e virtù.


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