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Charlie Says

30/07/2019 10:00

Emanuela Di Matteo

Recensione Film,

Charlie Says

Le ragazze di Charles Manson e l'omicidio di Sharon Tate

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Ancora oggi il nome di Charles Manson, deceduto in carcere nel 2017, puzza di zolfo ed è assunto a simbolo del Male, associato ai più folli criminali dell’umanità. Romanzieri, musicisti e registi ne hanno sfruttato le gesta non meno che correnti ideologiche e sette esoteriche, fino a trasformarlo in un’icona pop americana degli ultimi decenni. Le serie tv Aquarius, per due stagioni, e Helter Skelter si sono occupate della figura di Manson, esattamente come diversi film non memorabili, fino all’arrivo di Charlie Says di Mary Harron, regista canadese con alle spalle, tra i vari, Ho Sparato a Andy Warhol e American Psycho. Charlie Says, con spirito documentaristico, vuole fotografare il periodo immediatamente successivo, nonché conclusivo, della cosiddetta “Summer of Love”, rivoluzione dei figli dei fiori durante la quale giovani artisti festeggiarono una ritrovata libertà di pensiero attraverso performance, raduni, feste e concerti.


Il trentacinquenne Charles Manson (Matt Smith), piccolo criminale semianalfabeta, appena uscito di galera ma dall’elevato quoziente intellettivo, carisma e capacità affabulatoria, cavalcò abilmente questa ondata di ribellione generazionale, mettendo insieme un gruppo di giovani fragili e sbandati e dando loro una “famiglia” di cui era capo indiscusso. Tanto che il clan di Manson si chiamava proprio The Family. Una delle ultime arrivate è la dolce e timida Leslie Van Houten (Hannah Murray), rinominata da Manson col nome di Lulu, che insieme a Patricia Krenwinkel (Sosie Bacon) alias Katie, Susan Atkins - Sadie (Marianne Rendón) e all’unico ragazzo, Tex (Chace Crawford), saranno i protagonisti della famigerata strage del 9 agosto 1969. Invasati ed esaltati dal loro leader, convinti di essere i mandanti di un’opera di giustizia e compimento del destino del mondo, assaliranno nel cuore della notte la villa al 10050 Cielo Drive, nella zona nord di Beverly Hills, uccidendo con crudeltà insensata la giovane e bellissima Sharon Tate (Grace Van Dien), moglie del regista Roman Polanski al nono mese di gravidanza, e tutti gli altri ospiti della casa. Charlie Says racconta questa ascesa verso la follia fin dal suo inizio, apparentemente innocuo, prendendo come punto di vista il lavaggio del cervello operato ai danni dei ragazzi, vittime della manipolazione di Manson, e raccontando alcuni episodi emblematici, tra i quali la passione di Charlie per il mondo della musica e la sua rabbiosa frustrazione per non riuscire a diventare famoso.


Sarà proprio il delirio di grandezza e megalomania, unito a sentimenti razzisti, maschilisti e di invidia sociale, ad armare il folle leader di sete omicida. Forse l’interpretazione di Matt Smith non resterà annoverata come la più carismatica rappresentazione del criminale Manson, nel film più uno squilibrato millantatore che un mostro. Invece la sceneggiatura pulita ed efficace è opera di Guinevere Turner già collaboratrice di Mary Harron in American Psycho: forte di una sua personale trascorsa esperienza in un setta, l’autrice riesce a rendere comprensibile e plausibile il mondo parallelo nel quale vivono “le ragazze di Manson”. Tanto che il momento più commovente del film, che non dà per fortuna alcuno spazio al melo né all’horror, strada che sarebbe stato facile imboccare, è la de-programmazione delle giovani a opera della psicologa Karlene (Merritt Wever) che ha l’arduo compito di restituirle a loro stesse. La consapevolezza dei crimini commessi, passato l’effetto del lavaggio del cervello, è la scoperta più dolorosa, e lo è tanto per le protagoniste quanto per il pubblico.


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