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Il favoloso mondo di Amélie

05/01/2011 11:00

Tania Marrazzo

Recensione Film,

Il favoloso mondo di Amélie

L’infanzia di Amélie Poulain (Audrey Tautou) non è stata per niente rosea...

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L’infanzia di Amélie Poulain (Audrey Tautou) non è stata per niente rosea. La madre (Lorella Cravotta) morì schiacciata da un suicida, mentre il padre (Ruphus) medico, era un uomo così freddo da crearle una tale agitazione che durante le sue visite, a causa dell’inusuale vicinanza, aveva sempre la tachicardia. Creduta affetta da problemi di cuore venne istruita privatamente crescendo isolata e per far fronte alla sua triste realtà iniziò a vivere in un mondo un po’ sopra le righe. All’età di ventidue anni si trasferisce in un appartamento a Montmartre e inizia a lavorare in un caffè. Un giorno trova una scatola di ricordi di un certo Bretodeau (Maurice Bénichou), gliela restituisce di nascosto e osserva eccitata la reazione e le conseguenze sulla vita dell’uomo. Stimolata da questa vicenda decide di votarsi totalmente agli altri cercando di aiutare i suoi amici e vendicando le ingiustizie con gli stratagemmi più incredibili. Qualcosa però manca ancora nell’esistenza di Amélie e l’incontro con un misterioso ragazzo (Mathieu Kassovitz) che colleziona fototessere altrui l’aiuterà a trovarlo.


A volte basta un solo film per consacrare un’attrice, una sola interpretazione in una pellicola straordinaria per legarla così fortemente ad un ruolo da finire con l’esserne identificata a vita. Dal 2001 Audrey Tautou ha cambiato identità ed è divenuta per sempre Amélie Poulain... e pensare che quel personaggio non era nemmeno stato concepito per lei. Quando Jean-Pierre Jeunet scrisse Il favoloso mondo di Amélie, frutto di venticinque anni di appunti, la sua musa era Emily Watson, una ragazza di origini inglesi. Sembra assurdo crederlo adesso, credere ad un’Amélie che non sia Audrey Tautou e soprattutto che non sia francese visto che la pellicola di Jeunet non solo è ambientata in Francia, ma è filosoficamente e spiritualmente francese. Nelle statistiche Il favoloso mondo di Amélie risulta uno dei film più visti di tutti i tempi, vincitore di numerosi premi e candidato a cinque Oscar senza però vincerne nessuno - probabilmente troppo poco "kolossal" per la giuria americana. Amélie invece va rivisto, ascoltato, ne vanno analizzate le azioni apparentemente assurde e il suo strano modo di esistere per scoprire la polvere che c’è sotto il variegato e fantasioso tappeto di Jeunet, per non dire magico.


Amélie costruisce da sé il mondo in cui vive, non per fare grandi cose ma per toccare e ammirare da vicino quelle più piccole e inosservate, quelle che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio per questo nessuno vede. Voltarsi nel buio e guardare le facce degli spettatori nel cinema, osservare una mosca sullo schermo o affondare le mani nei legumi sono alcuni dei piaceri che la ragazza predilige, tutti aventi lo stesso senso del far rimbalzare i sassi sul Canal Saint-Martin: gettare un sasso nello stagno equivale a sconvolgere un equilibrio altrimenti immobile generando un movimento che coinvolge a distanza tutta una serie di elementi che mutano, la concatenazione d’eventi messa in atto da una sola azione è enormemente affascinante e rivela il bisogno e la profondità del sentire. Nonostante gli artifici, lo stile surrealisticamente pop, gli effetti speciali e i movimenti di macchina spiraliformi attraverso l’artificio Jeunet ricerca la pura dimensione del sentire, quella che esprimono i tre ragazzi che corrono nella scena tratta da Jules e Jim. Così pure le musiche di Yann Tiersen evocano un ritorno alle origini, ripescando nella tradizione folcloristica francese, con fisarmonica e pianoforte sempre in primo piano, producendo toni nostalgicamente romantici che spesso prendono il posto della voice off in un vero è proprio scambio drammaturgico.


Nella monografia dedicata al regista, Massimo Rota parla del bisogno di «affermare il proprio diritto alla leggerezza» esercitato da Amélie attraverso la fantasia. Vivere e crearsi una realtà assurda non significa auto ingannarsi ma, in questo caso, vivere nel modo più sincero possibile - anche se questo significa far arrivare lettere con quarant’anni di ritardo, far viaggiare nani da giardino o punire la superbia del fruttivendolo con intrusioni in casa e dispetti continui. Mettendo in crisi il buon senso piccolo borghese il regista denuncia la necessità di riappropriarsi della propria esistenza: alcuni hanno bisogno di un incoraggiamento, di un esempio da seguire, come un nano giramondo che sparisce e invia fotografie dei posti in cui è stato. Votarsi agli altri va bene, ma Amélie deve modificare anche la sua esistenza se vuole vivere davvero, deve mettersi in gioco e ricomporre i frammenti della propria fotografia per costruirsi un’ identità. Necessita quindi di un bisogno, di un desiderio che sia suo, qualcosa di importante per lei da realizzare, un amore affine che trova in Nino, il misterioso ragazzo che colleziona fototessere di sconosciuti. Trovare l’amore, quel sentimento con il quale ha giocato finché non si è resa conto di voler stare con Nino perché innamorata di lui, rivela tutta la sua funzione salvifica. Per la prima volta la ragazza ha a che fare con qualcosa di concretamente grande che non è solo suo, qualcosa che può condividere senza essere più sola. Scriverà sul muro, citando il suo amico scrittore Hipolito (Artus de Penguern): «Senza di te le emozioni di oggi sarebbero la pelle morta delle emozioni passate.» Finalmente Amélie ha capito ciò a cui sta pensando la ragazza con bicchiere de La colazione dei canottieri di Pierre-Auguste Renoir: ha capito perché il suo isolamento la trasforma automaticamente in centro del quadro.


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