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Il padre e lo straniero

08/02/2011 11:00

Erika Di Giulio

Recensione Film,

Il padre e lo straniero

Dopo sette anni di assenza Ricki Tognazzi torna alla regia raccontando di un dolore e di una condivisione, in un percorso complicato e oscuro che induce l’uomo

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Dopo sette anni di assenza Ricki Tognazzi torna alla regia raccontando di un dolore e di una condivisione, in un percorso complicato e oscuro che induce l’uomo a (ri)scoprire se stesso nella comprensione dei propri limiti e delle proprie sofferenze. Dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero è la storia di un incontro e di un’amicizia; di un tormento e della doverosa catarsi.


Diego (Alessandro Gassman) è il padre, un uomo di trentacinque anni impiegato al dipartimento per il commercio con l’estero. Ha una bella moglie di nome Lisa (Ksenia Rappoport), ma il loro matrimonio è minacciato dal dolore e da una quotidianità segnata dalla disgrazia. Il figlio Giacomino (il piccolo Leonardo Della Bianca) è nato con una forma di handicap psicomotorio. La madre, dopo aver abbandonato l’appassionante lavoro di fotografa, vive tra mille premure nella totale dedizione della sua creatura. Il padre invece è colmo di rancore: devastato dal dolore, lo ha ricacciato dentro di sé. La vergogna e la non accettazione sono i suoi sentimenti dominanti. Nel centro di riabilitazione dove viene seguito Giacomino, Diego conosce l’arabo Walid (Amr Waked), lo straniero. Un incontro che sconvolgerà la sua vita. Anche lui padre di un bambino, Yusef, (Ilary Branco) affetto da una grave malformazione. Un seducente uomo d’affari siriano dai modi affascinanti, elegante e misterioso. Walid ha un rapporto più sano con suo figlio, ha accettato con tipica saggezza le avversità senza dimettersi dalla propria vita privata. Diego ne viene immediatamente colpito. È proprio quel coraggio di essere padre che a lui manca. Tra i due nasce ben presto una sincera amicizia e un’intensa frequentazione. Sullo sfondo di una Roma inedita e sconosciuta, dal sapore medio-orientale, Diego si lascia coinvolgere dall’amico in una serie di avventure tra pasticcerie arabe, bagni turchi, spese di lusso e donne dal fascino remoto. Una sedicente cognata di nome Zaira - la bellissima Nadine Labaki (Caramel, 2007) - e toccata e fuga in Siria con volo privato a scoprire il pezzo di terra che Walid ha comprato per il figlioletto, giusto il tempo di lasciarsi stordire dalla magia irreale dei suq e delle alture nel deserto. Intanto Diego è tornato a stringere Giacomino, fa la doccia con lui e si riavvicina alla moglie, recuperando un’intimità finora insperata. Inaspettatamente però, Walid scompare. Diego lo cerca in tutti i modi ma non riesce più a trovarlo. Si muove in una città inospitale e insidiosa. I dubbi lo assalgono. È pedinato e incastrato in improbabili interrogatori dal maggiore dei servizi segreti e servitore dello Stato, Santini (Leo Gullotta). Alla ricerca di Walid, Diego, coinvolto ormai in una fitta rete di misteri, torna in quel lontano paese arabo in cui era stato con l’amico, e qui troverà ad attenderlo una scioccante e inattesa rivelazione. D’improvviso tutto sarà chiaro: Diego ha finalmente trasformato in energia il suo disagio esistenziale. Grazie a Walid ora ha la forza di essere padre per i suoi figli. Lisa infatti aspetta un bambino. È un maschio e si chiamerà Yusef.


Il padre e lo straniero è il film delle mille rinascite (Walid significa nascita in arabo), in cui Diego ridiventa uomo, padre, marito, amante. Walid gli ha donato (nel folgorante riapparire di una meridiana) il seme di un nuovo rapporto con le cose, il calore di un’amicizia, la scoperta di una nuova paternità. Tognazzi lavora sul contrasto fra due personalità; sulla diversità (di Walid e Diego, dei figli, delle realtà che si vorrebbe vivere) che diventa familiarità; sull’incontro-scontro tra l’Oriente, che ha il sapore antico di una favola e l’Occidente che se ne lascia affascinare. Walid filosofeggia, Diego è un piccolo uomo bloccato nel dolore. Tognazzi rimette Gassman a sudare nel bagno turco e l’omosessualità di Ferzan Özpetek cede il posto alla virilità, alla comunanza, al sodalizio maschile, di nuovo perno della vicenda. Fuori la politica dentro i rapporti umani. E fin qui tutto bene, salvo l’imbarazzante subalternità cui l’occidentale medio(cre) sempre viene sottoposto al cospetto dell’altro esotico. Definito dal regista un thriller psicologico e intimista, Il padre e lo straniero incarna il luogo dell’eccedenza e del disordine: nei temi, nelle soluzioni formali, nella ridondanza dei dialoghi. L’auspicata contaminazione dei linguaggi resta sospesa. Tognazzi si lascia sedurre dal poliziesco, senza il talento del giallista. L’action spionistico della seconda metà è in totale disequilibrio e inattendibilità rispetto al dramma sentimental-familiare di apertura. Siamo alla fiera dello stereotipo, della banalità. Aggressioni fisiche e svelamenti improvvisi, falsi indizi, colpi di scena tra Roma e Tunisia, inseguimenti, ingente dispiego di mezzi tecnici e ci scappa pure un accenno al terrorismo. Troppe piste da seguire, anche per il regista che non trova la misura e si smarrisce, complice una sceneggiatura (Izzo, De Cataldo, Diana, Tognazzi) approssimativa e frammentaria, priva di consistenza e omogeneità. Il regista procede per accumulazione e pecca di ingenuità. L’incedere della narrazione è lento e continuamente interrotto da una cascata di subplot che pullulano senza direzione. Arriva la noia e una serie infinita di scivoloni e luoghi comuni. Dialoghi improponibili, personaggi grotteschi e poco credibili e un cast di bravi attori davvero sacrificato (Alessandro Gassman che si sbraccia nervosamente, Ksenia Rappoport ingessata o al limite, sguaiata). Tognazzi da artigiano semplice a sperimentatore; da mestiere del cinema agito con sincerità, a intrigo multirazziale risolto con pedanteria, passando per il melò (Canone inverso). Di nuovo tanta fiction e poco cinema. Irrisolto e slegato.


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