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La misura del confine

06/05/2011 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

La misura del confine

Custodita dal ghiaccio implacabile, una mummia anonima riposa al confine tra l’Italia e la Svizzera...

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Custodita dal ghiaccio implacabile, una mummia anonima riposa al confine tra l’Italia e la Svizzera. Proprio il ritrovamento di questi resti mortali porta Mathias Valletti, tirolese, e Giovanni Bruschetta, siciliano, ad incontrarsi. I due topografi, infatti, vengono convocati dall’amministrazione di un piccolo paese per delimitare i confini tra i due paesi, decidendo in tal modo quale dei due stati debba prendersi la responsabilità delle spoglie ritrovate. I due protagonisti, insieme alle rispettive spedizioni, partono per il Monte Rosa, ma un’improvvisa tempesta di neve li obbliga a separarsi. Gli svizzeri si smarriscono, mentre gli italiani riescono a trovare asilo da Beatrice e Peppino, in un rustico ma accogliente rifugio. Qui, continuando le proprie ricerche, il gruppo porta alla luce un efferato delitto compiuto nell’immediato dopoguerra.


La misura del confine è il secondo lungometraggio di Andrea Papini, e l’inesperienza del regista è palpabile. Nonostante i meravigliosi scorci panoramici offerti dalle cime innevate del Monte Rosa, ed un discreto ritmo nel descrivere una sorta di investigazione documentaristica, il film purtroppo non ha basi su cui poggiarsi, per via di uno script mediocre, a cui il regista ha apposto la sua stessa firma. Dialoghi banali e spesso – per via dell’accento dei protagonisti – inintelligibili, fanno da sfondo ad un’accozzaglia di personaggi inseriti alla meno peggio, senza grandi approfondimenti psicologici, e spesso talmente fastidiosi – come nell’esempio di Rosa Maria, la moglie di Giovanni - da rendere il pubblico insofferente. La recitazione è, in effetti, uno dei maggiori deficit di questo film. Le interpretazioni sono spesso monocorde, senza slanci emotivi in una storia che, almeno sulla carta, dovrebbe essere veicolata da forti turbamenti e suggestioni. Questa mancanza di pathos negli attori si rispecchia, puntualmente, nell’incapacità dello spettatore di entrare fino in fondo nella narrazione, restandone sempre distaccato.


Non aiuta poi la scelta registica di rarefare la diegesi in una continua contemplazione; ogni minimo dettaglio, ogni rumore, ogni singola ipotesi si disperdono sul grande schermo, rallentando il ritmo e annoiando il pubblico. Soprattutto perché molto spesso questi dettagli non sono utili allo svolgimento del nodo narrativo, e dunque rimangono dei segni senza alcun significato. Sembrerebbe quasi che Papini abbia avuto così tanta voglia di dirigere questo suo secondo film da dimenticarsi una necessaria dose di concentrazione. Peccato, perché il cinema italiano ha bisogno di pellicole capaci di sperimentare al di là dei generi convenzionali; ma se i risultati sono questi, c’è poco da sperare.


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