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Breaking Bad (2009), la recensione della stagione 2

02/10/2019 10:00

Marco Filipazzi

Recensione Serie TV, Breaking Bad, Vince Gilligan,

Breaking Bad (2009), la recensione della stagione 2

Avete visto la prima stagione di Breaking Bad e siete rimasti delusi? Quello che possiamo consigliarvi è: non demordete

Avete visto la prima stagione di Breaking Bad e siete rimasti delusi? Quello che possiamo consigliarvi è: non demordete. Non lasciatevi scoraggiare, ma guardate ancora una manciata di episodi prima di gettare la spugna. Immaginate di essere seduti alla guida di un’auto con davanti a voi un lunghissimo rettilineo di 62 puntate. Breaking Bad è composta da 5 stagioni, esattamente come le marce; ingranando la prima, non schizzerete subito a 100 km/h, ma avrete un’accelerazione costante e graduale, che aumenterà mano a mano che passerete in rassegna tutte le marce. Ecco, Breaking Bad è così, lento ma inesorabile; si prende tutto il tempo per presentare allo spettatore la situazione, i personaggi, il mood, senza preoccuparsi di portare sullo schermo scene madri o svolte di trama ostentate e compulsive. Non ci sono orsi bianchi che si aggirano per giungle tropicali solo per ingolosire lo spettatore a vedere la puntata successiva.

 

Quello che Vince Gilligan ci chiede è fiducia e pazienza: entrambe, a tempo debito, verranno ampiamente ripagate. Ci dobbiamo solo fidare di lui, dei suoi tempi, delle puntate immobili in cui i personaggi non fanno altro che discutere, parlare, litigare. Così è stato nella prima stagione, alternando scene strazianti come quella del “cuscino della parola” ad altre come il negoziato esplosivo tra Walter e Tuco. E quello era solo l’inizio. Se avremo fiducia in lui, Gilligan ci porterà in luoghi che mai avremmo potuto credere possibili in una serie tv.

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Meglio chiamare Saul

Torniamo alla metafora dell’auto. Nello specifico, la prima stagione può essere paragonata alla manovra che si fa per uscire dal parcheggio. Non è una vera e propria parte del viaggio, eppure è necessaria per poterci mettere in marcia verso la nostra destinazione. In origine la prima stagione avrebbe dovuto contare 9 episodi, ma a causa dello sciopero degli sceneggiatori vennero ridotti a 7. Ingranando la marcia copriamo la prima parte della seconda stagione, che a tutti gli effetti può essere considerata una sorta di appendice alla precedente, dove vengono chiusi alcuni archi narrativi (quello di Tuco) e gettate le basi per ciò che verrà in seguito, sia nel breve che nel lungo termine.

 

La puntata spartiacque, quella in cui finalmente viene inserita la seconda marcia, la velocità aumenta un po’ e le cose iniziano a farsi serie, è il fatidico episodio 2x08 Better call Saul (quindicesimo episodio della serie) che introduce uno dei personaggi più iconici (e fondamentali) di tutta la mitologia di Breaking Bad: l’avvocato Saul Goodman appunto. È lui il vero fulcro della stagione, quello che più di chiunque altro farà svoltare la storia lanciandola a tutta velocità lungo il rettilineo di cui sopra, mettendo in contatto i due protagonisti con altri personaggi basilari per lo sviluppo della narrazione: il “tuttofare” Mike Ehrmantraut, ma sopratutto l’Uomo del Pollo, Gus Fring, che sarà la vera chiave di volta per Walter e Jesse.

 

Dal momento in cui Saul appare sullo schermo, la velocità inizia ad aumentare, così come le bugie di Walter si faranno sempre più grosse e le reazioni collaterali saranno sempre più fuori dal suo maniacale controllo (anche se molto spesso riuscirà comunque a sfruttare situazioni impreviste a suo favore). È anche il momento in cui il nome di Heisenberg inizia a contare qualcosa nel sottobosco di tossici e spacciatori che infestano il New Mexico, arrivando ad echeggiare persino al di là del confine, attirando l’attenzione del Cartello.

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Flash-forward

Si parlava poco sopra dell’assenza di cliffangher nei finali delle puntate. Infatti quello che Gilligan mette in scena sin dalla primo episodio è un meccanismo differente, più cinematografico che televisivo. Ci mostra una situazione assurda, improbabile (ad esempio: la serie si apre con Walter in mutande e maschera antigas, che guida follemente un camper in mezzo al deserto, con accanto a lui Jesse svenuto e due corpi all’apparenza morti che vagano sul retro) e nel corso dei 40 minuti successivi ci mostra come si è arrivati a quel punto.

 

Questo escamotage viene collaudato nel corso della prima stagione, mentre nella seconda è amplificato. 4 episodi di 13 si aprono con inquadrature in bianco e nero, senza dialoghi, che ci mostrano dettagli inizialmente senza senso, come un orsacchiotto di peluche (rosa, l’unica nota di colore in un effetto Sin City) che galleggia in una piscina. Puntata dopo puntata i dettagli si fanno più ampi: capiamo che quella è la piscina di casa White, vediamo l’auto di Walter con il parabrezza sfindato, infine due corpi chiusi in altrettante body bags stesi nel vialetto.

 

Sono briciole, indizi di un inevitabile finale di stagione – finale inteso come gli ultimi minuti della 13esima punata; con quell’ultima, pazzesca inquadratura che cade da 5000 metri di quota finendo nella piscina di Walter – che finalmente fa coincidere tutti i pezzi di un intricatissimo puzzle. Jesse, Walt, la meth, Jane, l’eroina, Saul Goodman che manda Ehrmantraut a risolvere la situazione, il padre di Jane e quell’assurdo dialogo su Marte, il percorso di disintossicazione, la torre di controllo di Albuquerque (o ABQ come il titolo dell’episodio) e quell’orsachiotto, rosa, come il maglione indossato da Walter nell’ultima scena. Coincidenza?

 

Vince Gilligan dà ampio sfoggio delle proprie abilità di scrittura, unisce tutti i puntini disseminati fin lì senza che lo spettatore nemmeno se ne rendesse conto, stringendo il suo cappio, mozzandoci il fiato, troncando una stagione nel suo apice più alto, dando un nuovo senso alla parola cliffhanger. Breaking Bad è definitivamente lanciato sul rettilineo e Gilligan affonda il piede sull’acceleratore. Da adesso in poi le reazioni collaterali si faranno sempre più pericolose e i piani (quanto quelli di Heisenberg, quanto quelli degli sceneggiatori) sempre più intricati, machiavellici. Come una complicatissima partita a scacchi in cui ogni mossa è calcolata e fondamentale per poter vincere.

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