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Hunters (2020): la recensione della stagione 1 con Al Pacino

27/08/2020 14:35

Rita Ricucci

Recensione Serie TV, Amazon Original, Al Pacino, Logan Lerman,

Hunters (2020): la recensione della stagione 1 con Al Pacino

Una serie adrenalinica ma non empatica

 

 

 

Hunters, su Amazon Prime Video, è una serie adrenalinica... ma non empatica: ecco perchè

 

 

Hunters è una serie calda, per via dei colpi da sparo e anche per via del sangue che fluisce dalle vittime, ogni dieci minuti; è calda insomma per via dell’adrenalina che innesta nello spettatore. Ma non è empatica. Piuttosto è irriverente e claustrofobica. E spieghiamo perché. Nella nuova serie originale Amazon Prime è il viso di un attore hollywoodiano del calibro di Al Pacino a fare da testimonial, un viso perfetto per garantire qualità recitativa e narrativa... che però finisce solo per essere pari a stereotipi da sitcom americana.

 

Siamo nel 1977 e si è aperta la Caccia: ebrei, cacciatori di nazisti trapiantatisi in America dopo la sconfitta del Terzo Reich, contro nazisti, ormai americanizzati, giunti in America e pronti a far nascere il Quarto Reich. Almeno due questioni da evidenziare per il soggetto. La prima. Una sottile (evidente?) critica all’America che detiene questo record per presenze antisemite. La seconda. Un evidente (non troppo sottile) incitamento alla vendetta personale e di gruppo. Al pari di uno dei videogiochi più famosi, Fortnite, anche Hunters muove i personaggi con gli stereotipi del game e lo spettatore è invitato a de-scriversi all’interno di uno di loro, per questo molto diversi e agli antipodi, uno dall’altro. 

 

Jonah (Logan Lerman) è un ragazzo ebreo: vive con sua nonna, la Safta (nonna), sopravvissuta alla Shoah ma assassinata crudelmente, una sera, sotto gli occhi del nipote. Sconvolto, Jonah viene catturato in una retata e liberato, dietro una forte cauzione, da Meyer (Al Pacino). Il rapporto tra i due parte in sordina, ma è lampante anche per Jonah che qualcosa di speciale e nascosto nell’amicizia della nonna con il suo nuovo protettore ci deve essere stato per sborsare quella somma a suo favore. Così, piano, piano Meyer conquista la fiducia del “ragazzo” e lo inserisce nella sua équipe di antinazisti: Lonny (Josh Radnor), un piccolo attore alla caccia di successo; Sorella Harriet (Kate Mulvany) una suora cattolicizzata, ma ebrea di nascita, scampata all’Olocausto perché nascosta in un convento cattolico; Joe (Louis Ozawa), veterano del Vietnam; Murray e Mindy (Saul Rubinek e Carol Kane), due coniugi scampati all’orrore di Auschwitz dove un comandante tedesco sparò al loro primogenito; Roxi (Tiffany Boone), che cerca di rivendicare i suoi diritti.

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Il problema principale di Hunters è che non sembra avere un fine, uno scopo…nessuna morale. E tantomeno i personaggi sembrano averne. 

 

Il “ragazzo”, Jonah, troppo spesso additato come il bambino che rompe le uova nel paniere al resto dei cacciatori, ha lo sguardo buono del giovane Peter Parker, ma non riusciamo a commuoverci per lui perché, intrappolato nei meandri vendicativi della truppa a cui si è annesso. Mentre impara che «la vendetta è la miglior vendetta», la sua titubanza nell’agire è sempre insufficiente ed è vinta da una rabbia e da una collera che domina lui, come tutti gli altri cacciatori. L’intervento dell’agente dell’FBI, Morris, (Jerrika Hinton), una donna di colore che vive il dramma personale di non aver ancora confessato a sua madre, morente in un ospedale, che l’amore della sua vita è Maria, una donna, fa il tentativo di rimettere in linea i connotati di una giustizia umana, cacciando a sua volta i criminali, indipendentemente dal colore della pelle o dall’origine etnica. L’incontro materno che ha con Jonah, a casa di Meyer, vuole essere un tentativo di rendere il giusto e punire l’errore: «C’è un modo giusto e un modo sbagliato di fare giustizia. Tu puoi scegliere di fare la cosa giusta…», dice al ragazzo. Ma è la risposta di Jonah che ci rende perplessi: «Perché i buoni devono sempre scegliere di fare la cosa giusta?»

 

In Hunters sono troppo deboli e sporadiche le parole che si usano per il Bene: «Non è che i buoni devono sempre scegliere di fare la cosa giusta. È che scegliere di fare la cosa giusta fa di loro i veri buoni» risponde l’agente Morris a Jonah. Peccato che dopo tre puntate la ritroviamo coinvolta nella Caccia, al fianco dei cacciatori, tenendo basso lo sguardo sulle ipotesi di omicidi commessi da alcuni di loro. Anche lei, cade nella trappola della vendetta. In fondo è una donna nera: «Non so come fai a indossare quella pelle ogni giorno con la gente che ti considera la feccia della terra», le dirà il macellaio nazista, Biff Simpson (Dylan Baker). Lo stesso trattamento non è risparmiato a Roxi quando si presenta nella casa di Tilda, nel bel mezzo di un comizio che esalta le dote americane al pari di quelle della razza ariana e i neri vengono accusati di essere dei parassiti. Non convince questa riscrittura di due storie complesse, quella del popolo ebreo e quella americana, in una vicenda di parallela violenza.

 

Il Male non può mai essere gratuito e non c’è nessuna ragione per il male, dirlo è un ossimoro evidente. Ed è per questo che delude Meyer, il «più gran ciarlatano di tutti i tempi, una lingua astuta», come dice Tilde riconoscendolo. Perché Meyer si svelerà non essere quella persona a cui avremmo voluto credere. Hunters è una serie in cui comunque giochi, uccidi. Ovunque ti schieri, come in un videogame, sarai mira di un bersaglio mortale. Manca l’aria della catastrofe, il respiro della memoria, il fiato del dolore.

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